CAAI

Club Alpino Accademico Italiano
Domenica, 28 Febbraio 2021 12:28

 

testo di Alberto Rampini - le foto, ove non specificato, sono dell'autore

Di "perle" la Valle del Sarca ne ha veramente tante e per tutti i gusti. Moltissime sono "perle coltivate", simili a quelle naturali ma più curate, con un ché di elaborato e un po' innaturale che le rende comunque piacevoli e sicuramente alla portata di un pubblico vasto per il loro prezzo contenuto.

Prezzo alpinistico naturalmente, quindi comodità e impegno limitato, quello che piace oggi al grande pubblico. Ma la Valle raccoglie nel suo scrigno prezioso perle naturali di grande valore, riservate ad una cerchia più ristretta di estimatori, appassionati del genere e che non si fanno spaventare da un prezzo più alto in termini di impegno e di fatica, sicuri di trarne piacere e soddisfazione impareggiabili.

Anche in Valle del Sarca naturalmente non è tutto oro quello che luccica sulle pagine delle guide e sul web, per cui ho pensato fosse utile presentare una scelta di vie tradizionali, non manomesse in ottica securitaria e commerciale, ma caratterizzate da qualità alpinistica indiscutibile: linea logica e naturale, qualità della roccia e dell'arrampicata, proteggibilita' alpinisticamente adeguata.

Quindi vie nel loro genere sicuramente consigliabili, belle e di soddisfazione. La scelta che propongo è per forza di cose limitata e non esaurisce di certo il panorama delle vie trad meritevoli, ma intanto partiamo con queste, non senza aver dato prima uno sguardo alla storia dell’alpinismo in Valle.

Buone scalate a tutti e un invito a rispettare e conservare integro questo grande patrimonio e l’ambiente che lo ospita.

Le grandi pareti della ValleLe grandi pareti della Valle

 

INTRO

La Valle del Sarca, estremo lembo di terra trentina proteso verso la piatta Pianura Padana, rappresenta un unicum di connubio felice tra clima mediterraneo e alte pareti e montagne di ambiente prealpino, se non addirittura prettamente alpino. Il solatìo ambiente a lecci, cipressi e ginepri che ci accompagna all’attacco delle vie del Monte Casale lascia il posto, 1.200 metri più in alto, all’aria frizzante delle praterie sommitali e alle foreste di abeti del versante settentrionale, al cospetto del vicinissimo Gruppo di Brenta.

Un microcosmo, quindi, dagli aspetti più vari, ma con la predominanza assoluta di condizioni climatiche mild per la quasi totalità dell’anno. Ne risulta un ambiente quanto mai favorevole allo sviluppo delle attività outdoor e in modo particolare dell’arrampicata e dell’alpinismo. E come agli albori della storia le condizioni climatiche non avverse del bacino del Mediterraneo fecero da sfondo allo sviluppo delle grandi civiltà, così le condizioni favorevoli, climatiche e morfologiche, della Valle del Sarca hanno favorito enormemente la diffusione dell’attività alpinistica, soprattutto dal momento in cui le spinte al rinnovamento hanno portato a posare lo sguardo e l’interesse anche al di fuori del campo tradizionale dell’alpinismo, cioè le più alte cime della catena Alpina, generando un’attività dapprima sussidiaria e preparatoria alla precedente, poi via via sempre più autonoma e con caratteristiche peculiari e molto ben connotate.

 Cima alle CosteCima alle Coste

 FOTO COPERTINA 2Una pietra dai colori fantastici

 

ALPINISMO CLASSICO IN VALLE DEL SARCA - UN PO’ DI STORIA

La storia alpinistica della Valle del Sarca è ancora scritta soltanto sulle sue pareti e in alcune guide alpinistiche. Dai tempi in cui i braccianti locali si arrampicavano quanto più in alto possibile per affastellare legna e fascine per l’inverno, ai primi tentativi e realizzazioni di alpinisti di Riva ed Arco, tragicamente interrotti da un mortale incidente occorso al rivano Bresciani, mentre tentava in solitaria la difficile parete Est di Cima Capi. Per le prime importanti realizzazioni bisogna arrivare agli anni Trenta, quando i grandi nomi dell’alpinismo trentino si avventurano su per la valle e studiano per primo il versante Est del Monte Casale, la ciclopica parete che chiude la lunga catena montuosa, facendo angolo sulla valle del Basso Sarca, e che si eleva per ben 1.200 metri.

Ma vediamo per sommi capi l’evoluzione delle più significative tendenze, individuando per comodità alcuni periodi caratteristici.

Gli albori – Anni Trenta

Evidentemente la scelta delle pareti è tipicamente dettata dall’alpinismo che si praticava all’epoca e le prime vie vengono aperte sulla parete più alta (Est del Monte Casale): quella di M. Friederichen e F. Miori del 1933 e soprattutto quella di Bruno Detassis, Marino Stenico e Rizieri Costazza del 1935, che vince il Gran Diedro la cui linea si impone al centro della parete.

Lago di ToblinoIl Lago di ToblinoIl periodo d’oro – Anni Settanta/Ottanta

Sono ancora lontani i tempi in cui verrà privilegiata l’arrampicata su placca, quando una compagnia di danzatori, specializzata nell’arte apparentemente aerea del balletto, si esprimerà con energia creativa riuscendo ad imprimere al progetto di un nuovo stile e di una nuova filosofia arrampicatoria una sotterranea e sottile carica eversiva che andò anche al di là delle loro intenzioni, come dimostrano tante contemporanee imprese al Piccolo Dain, al Monte Casale e al Monte Brento.

Se è vero che si diffuse la mistica della placca, è anche vero che molte vie, superato l’alto zoccolo basale, in genere una placconata liscia, a balzi, si trovarono ad affrontare la più verticale e strapiombante parte sommitale che riportava a più consuete ed estreme condizioni dolomitiche.

Tipico esempio è la via Martini, Tranquillini e Perotoni alla Cima alle Coste (1972) che, superato lo scudo basale, si trova subito sopra la cengia di fronte alla classica parete gialla di diedri, fessure verticali, lame appoggiate, sottili e bellissime. Altro tracciato esemplare è la via del Boomerang di Marco Furlani, Valentino Chini, Mauro Degasperi e Riccardo Mazzalai (1979) dove i tiri finali, oltre l’ultimo boschetto, richiedono il ritorno ad un’arrampicata più tecnicamente tradizionale per camini e diedri, esaurite le levigate placche e la loro massiccia solidità, al di sopra della lavagna grigia e compatta vinta in aderenza. E’ emblematico che la citata via del Boomerang sia stata anche battezzata come via della Nuova Generazione a sottolineare il confronto che si proponeva, in cui entrano la bellezza delle vie, la perfezione tecnica, la grazia dei movimenti, l’energia utilizzata quando ci si sente il cuore in gola.

aaa Striped Slabs Sarca ValleyLe Placche Zebrate - Ph Silvia MazzaniLe vie spittate – Anni Novanta e oltre

Con il progressivo esaurirsi della spinta innovativa che aveva prodotto decine di belle, impegnative e sempre più difficili vie di stampo prettamente alpinistico (per logica di tracciato e mezzi impiegati), cominciano ad affacciarsi, con un certo ritardo rispetto ad altre zone, come ad esempio il Finalese, le prime vie integralmente protette a spit. Sono vie concepite in ottica plaisir e studiate per venire incontro alle richieste di sicurezza e ingaggio ridotto, tipici portati dell’alpinismo diventato fenomeno di massa (massa relativa, ma sempre massa, e cioè fenomeno radicalmente differente da quello che aveva fino ad allora interessato un limitato numero di addetti ai lavori). Fortunatamente, fenomeni altamente involutivi, come l’apertura di vie dall’alto o gli scavi, sono in valle estremamente limitati e oggetto di generale riprovazione, così come sono stati stroncati decisamente sul nascere alcuni maldestri tentativi, peraltro molto limitati, di snaturare i capolavori del periodo classico con richiodature antistoriche e prive di significato. Unica eccezione ragionevolmente accettata è per le soste.

 

Le vie stile “Grill” – Terzo Millennio

Infine, così come le vie a spittatura seriale erano state una reazione al rischio a volte ben alto delle vie trad non di rado su roccia mediocre, ultimamente le pareti sono state travolte da un nuovo filone di aperture, che privilegia le linee ancora logiche ed arrampicabili con un uso normalmente parsimonioso di infissi, ricreando un’apparenza di arrampicata tradizionale. Fa comunque piacere costatare che, nonostante il succedersi in Valle di questi filoni diversi, legati a corsi e ricorsi storici, il patrimonio di vie del periodo d’oro sia rimasto sostanzialmente intatto, sia pur magari con qualche “ritocco”, a disposizione degli alpinisti più preparati, che ci auguriamo si affianchino sempre più numerosi agli atleti dell’arrampicata sportiva.

La Bassa Valle del SarcaLa Bassa Valle del SarcaE il futuro?

Già più volte i protagonisti dei vari periodi avevano sentenziato l’ormai imminente esaurirsi dei problemi da risolvere, smentiti puntualmente da chi ha pensato di proporre (e risolvere) nuove tipologie di problemi o di obiettivi, sviluppando nuovi filoni di aperture. Grill, scalando oggi l’inscalabile, avrà esaurito o almeno davvero fortemente ridotto i margini per la possibilità di apertura di vie nuove ragionevoli? Non è difficile ipotizzare che il futuro riservi ulteriori sorprese e traguardi magari oggi non definibili.

Problemi indubbiamente sono sorti e altri ne sorgeranno: del resto il mondo alpinistico, dagli opinion leaders ai più semplici praticanti, è formato da personalità e caratteri forti, geneticamente non facili, e stabilire punti fissi e principi accettati da tutti è utopia.

Nonostante alcuni limitati tentativi di attacco, dovuti sicuramente più all’ignoranza storica dei protagonisti che a consapevolezza del significato del gesto, ci si può sicuramente rallegrare del fatto La Media Valle del Sarca 1La Media Valle del Sarcache il grande patrimonio storico di vie classiche aperte con spirito fortemente alpinistico si è conservato pressoché intatto, passando indenne attraverso le varie fasi di sviluppo dell’arrampicata.

E questo grande patrimonio, che ci dobbiamo tutti impegnare a conservare, rappresenta non solo un documento storico eccezionale, ma anche un valore aggiunto, in prospettiva, molto importante e che in futuro potrà fare la differenza, anche nella promozione dello sviluppo della frequentazione alpinistica della Valle, rispetto ad altre zone meno ricche di storia, o dove la storia è stata irrimediabilmente cancellata dalla sovrapposizione di un modernismo poco rispettoso e intimamente distruttivo.

Sarebbe bello che qualcuno in valle si sforzasse di dire ancora qualcosa di nuovo, magari non solo al ristretto cenacolo dei big, ma a favore soprattutto dei giovani arrampicatori, aprendo loro le porte all’immenso patrimonio trad che la valle ancora offre e del quale noi accademici vorremmo essere i custodi.

Ben convinto di questo, voglio proporre di seguito alcuni straordinari itinerari in prevalenza degli anni d’oro, fortunatamente rimasti sostanzialmente integri nelle loro caratteristiche. E li propongo non in contrapposizione con altre tipologie di itinerari ed altre mentalità, ma solo per promuovere la consapevolezza che le proposte che oggi in valle tengono il campo dell’alpinista medio (vie a spittatura seriale da un lato e vie “stile Grill” dall’altro) non sono le sole proposte per fare bellissime esperienze di arrampicata in relativa sicurezza e con la soddisfazione aggiuntiva di conquistare qualcosa con i propri mezzi e le proprie capacità, più che approfittando del lavoro e della preparazione fatta da altri.

cartina ritagliata okLE CLASSICHE PIU’ RIPETUTE

Le vie proposte, a partire dalla bassa Valle fino alle Sarche, hanno tutte in comune una logica lineare, che segue strutture evidenti della parete, una roccia di ottima qualità o al più con qualche breve tratto delicato, assenza di spit ma proteggibilità sempre alpinisticamente accettabile. Più ingaggiose delle altre Fiore di Corallo e la Canna d’organo, che richiedono una buona padronanza del grado. Ma ci sono anche alcune vie brevi e di impegno complessivo contenuto che si prestano per fare esperienza sul terreno trad e acquisire padronanza di questa straordinaria disciplina (ad esempio la Via Flavia al Colt e l’Isola di Nagual alla Pala delle Lastiele).

Per eventuali ulteriori informazioni si può fare riferimento all'autore Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

01 Via FlaviaVia Flavia - Quarto tiro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 - MONTE COLT

VIA FLAVIA   

D. Zampiccoli e F. Miori 1983

150 metri, 5 tiri, V+/VI/R3

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Scalata di soddisfazione e varia (camini, diedri e placche), su ottima roccia.

Via breve, dal comodo attacco e discesa veloce, adatta ad una mezza giornata di tempo incerto. Al sole già al primo mattino, ideale nelle mezze stagioni e nelle belle giornate invernali. Lungo la via qualche chiodo e cordino, necessaria una piccola scelta di friend medio-piccoli. Le soste sono a spit, perché condivise con vie sportive limitrofe. Una recente pulizia ha reso la via ancora più piacevole.

01 Via Flavia 3

Attacco

Da Arco (zona Casinò) seguire la strada per Laghel e dopo una ripida salita, ad un bivio in prossimità della chiesetta bianca, prendere a destra la strada bassa e seguirla fino ad un piccolo parcheggio sulla destra (cartelli SAT con indicazione per la cima del Monte Colt). Seguire l’evidente carrareccia, al primo bivio prendere a destra e salire fin sotto una piccola falesia: proseguire con alcuni tornanti fino a giungere a una sella. Poco oltre si abbandona il sentiero SAT bianco-rosso che sale a sinistra e si prosegue sulla destra dapprima in piano e poi in discesa (cavi metallici e alla fine una breve scaletta in ferro) giungendo nel bosco sul versante Est della dorsale. Prendere verso destra (Sud) un’evidente traccia che passa sotto una falesia (nomi delle vie con targhette metalliche) e poi costeggia la parete. Dopo un breve tratto in discesa, superato l’attacco della via Re Mida (targhetta), si nota un grande camino giallo caratteristico. Qui attacca la via. 30 minuti dall’auto.

01a Via Flavia schizzo OK

 

 

 

 

 

 

 

 

Discesa

Dall’uscita della via salire brevemente nel bosco fino ad incrociare un’ampia traccia che si segue verso destra (Nord) fino alla sella dove ci si raccorda con il sentiero seguito per andare all’attacco. Scendendo verso sinistra (Ovest) si ritorna velocemente al parcheggio. 15 minuti dall’uscita della via.

Relazione

L 1 – Salire un diedro (evtl 2 fix di una via vicina) e poi entrare nel grande camino che si sale fino al suo termine, uscendo da ultimo a sinistra per sostare poi comodamente alla sommità del grande lamone. 40 mt, IV

L 2 – Traversare a sinistra facilmente, poi utilizzando una fessurina da proteggere portarsi ad un albero sul quale si sosta. 30 mt, V

L 3 – Superare un muretto (ch) e seguire poi una rampa verso destra seguita da un diedro fino alla sosta (30 mt, VI, poi IV+)

L 4 – Salire su ottima roccia lavorata e poi obliquare progressivamente a destra, superare una vecchia sosta e traversare più nettamente verso destra fino ad un vago diedro giallo che si supera giungendo ad una pianta di fico. Da qui traversare ancora a destra e salire alla sosta. (35 mt, V+, tiro continuo, esposto e molto bello).

L 5 – Sulla sinistra della sosta salire un diedro con netta fessura, superare lo strapiombino finale e poi per rampa fessurata più facile al bosco sommitale (40 mt, IV+, alcuni spit – uscita in comune con la via “Nove dita”).

 

02 baldessarini 22 - COSTE DELL’ANGLONE

DIEDRO BALDESSARINI

A. Baldessarini, A. Maffei 2011

250 metri, 7 tiri, VI+/R3

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Simpatica via, di recente pulita e integrata con varianti dirette che la rendono più omogenea e interessante. L’arrampicata è atletica, su roccia sempre ottima e da proteggere con friend (sufficiente una serie fino al 3 bd).

Esposizione Est, ben soleggiata anche in inverno.

Attacco

Da Arco prendere per Trento e dopo poco imboccare sulla sinistra la deviazione per Ceniga. All’inizio del centro abitato vero e proprio sulla destra si trova un parcheggio pubblico, dove è consigliabile lasciare l’auto. Tornati indietro sulla strada principale per poche decine di metri di prende sulla destra (Ovest) una stradetta con indicazioni per il Ponte Romano. Superato il ponte (bel monumento storico), di prende sulla destra una strada sterrata pianeggiante che si segue fino al Maso Lizzone. Davanti al Maso girare a sinistra (Ovest) e poco dopo seguire sulla destra una traccia con indicazioni per il Sentiero degli Scaloni e poi per il Sentiero delle Cavre salendo fino al bosco. Ad un ometto prendere una traccia sulla sinistra che porta contro la parete: oltrepassata una falesia e l’attacco di Anche le donne vogliono arrampicare (scritta) si giunge allo spiazzo dove attacca la via (nome alla base). 30 minuti dall’auto.

Discesa

Salire brevemente nel bosco, obliquare a destra per traccia e raggiungere in breve il Sentiero degli Scaloni che riporta al Maso Lizzone e poi per strada al parcheggio (calcolare 40 minuti in tutto).

02 baldessarini

 

Relazione

L 1 – Per muretti e rocce articolate raggiungere un albero con cordone, dal quale a sinistra alla sosta (V, 35 mt)

L 2 – Direttamente sopra la sosta, aggirare poi a sinistra un piccolo strapiombo, scalare un muretto e andare a sinistra alla sosta alla base di un diedro giallo (VI, 20 mt)

L 3 – Salire il diedro e sostare a sinistra su albero (VI, 25 mt)

L 4 – Si sale per un diedro grigio, poi a destra e per terreno più abbattuto si va a sostare su albero alla base del grande diedro regolare che caratterizza la parte alta della via (VI+, 35 mt)

L 5 – Salire il diedro fino ad una sosta (VI, 20 mt)

L 6 – Ancora per il diedro evitando a sinistra lo strapiombo finale (VI, 25 mt). Questo tiro si può agevolmente abbinare al precedente saltando la sosta intermedia.

L 7 – Salire per lama-fessura, poi obliquare a destra fino ad uno spigolino e, superato un diedrino, sostare su albero al termine delle difficoltà (VI, 20 mt).

 

03 Pilastro Gabrielli schizzoIn rosso il Pilastro Gabrielli, in blu Black Hole3 - MANDREA CENTRALE

PILASTRO GABRIELLI

G. Stenghel, G. Vaccari, 1978

200 metri, 5 tiri V+ e VI/R3

Esposizione Est

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La via, esposta ad Est, è fattibile tutto l’anno, ad esclusione dell’estate per il troppo caldo.

Via storica, di straordinaria logica ed eleganza. Vince una impressionante prua strapiombante seguendo una successione di magnifici diedri con arrampicata atletica ed entusiasmante.

Chiodatura scarsa, ma ottima proteggibilità con friends (anche grandi, fino al 4 o 5 bd). Soste comode a spit. Possibile la discesa in doppia dalle soste 1, 3 e 4. Assolutamente da non perdere, anche per il valore storico (meditare sui cunei che ancora si vedono in qualche fessura e pensare agli apritori con scarponi rigidi e… senza friends). Un paio di fix (ora senza piastrine) assolutamente inutili lungo una fessura perfettamente proteggibile testimoniano l’irriverente tentativo da parte di qualche sprovveduto tassellatore di addomesticare questa linea superba.

Attacco

Da Arco salire a Laghel e di fronte alla chiesetta bianca svoltare a sinistra e seguire la stradina prima asfaltata e ripidissima, poi sterrata e in falsopiano, fino al suo termine, parcheggiando nei pressi di una fontana. Seguire la mulattiera verso sinistra (sbarra) per breve tratto, poi seguire una delle tante tracce che puntano alla parete e all’evidente prua sulla quale corre la via. A destra della verticale del Pilastro individuare una rampa erbosa con qualche bollo rosso, alzarsi obliquando verso destra fino ad una pianta dove inizia una corda fissa che aiuta a superare placche verticali e vegetate (15 minuti). Verificare lo stato della corda fissa e valutare se legarsi in cordata fin da questo punto.

 

 

 

03 Pilastro Gabrielli

 

03 Pilastro Gabrielli 2

03 Pilastro Gabrielli 3Discesa

Scendere brevemente nel bosco per traccia raggiungendo la strada asfaltata che da Padaro sale a San Giovanni. Seguirla verso sinistra (Sud) e dopo circa 200 metri abbandonarla per imboccare sulla sinistra una evidente mulattiera (indicazioni: Laghel), poi un sentiero segnato sulla sinistra in leggera salita, passando da una cava abbandonata. Proseguire poi in discesa, seguire il sentiero che costeggia la sommità delle pareti e ad un Grosso traliccio prendere una traccia sulla sinistra che riporta alla strada di Laghel poco a valle dell’auto (1 ora).

Relazione

Si risale la corda fissa, obliquando poi a sinistra per tracce esposte (un tratto ancora di corda fissa) per salire alla fine ad un boschetto alla base del pilastro vero e proprio. Tratto delicato e da percorrere con attenzione.

L1 – Salire un diedro facile, una breve fessura (quella di destra di due parallele) fin sotto uno strapiombo, che si aggira sulla sinistra montando poi su un aereo pulpito. IV +, V+ 30 mt

L2 – Obliquando a destra su roccia marrone si va a prendere una fessurina (tratto delicato) sino ad una piccola sosta. VI + 30 mt

L3 – Seguire un diedro giallo sostando al suo termine su un comodo terrazzo a sinistra. VI 25 mt

L4 – Salire il fantastico diedro seguente, proteggendosi al meglio con friends grossi (alcuni chiodi nel tratto superiore più strapiombante). VI+ 50 mt

L5 – Salire la placca a sinistra (clessidra) uscendo nel bosco alla sommità del pilastro. V 30 mt.

 

                               4 - MANDREA CENTRALE

BLACK HOLE

G. Stenghel e M. Giordani 1979

250 metri, 7 tiri, VI+/R3

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Bella salita, caratterizzata da splendide fessure da proteggere nella prima parte e da un diedro strapiombante e con roccia più delicata nella seconda parte. Un po' meno simpatica l’uscita in un canalino pieno di foglie. Merita comunque senz’altro la ripetizione, anche per l’ambiente straordinario in cui si svolge. Utile una serie completa di friend.

Meglio percorrerla in primavera avanzata o in autunno. In inverno è ombreggiata dal Pilastro Gabrielli.

Attacco

Lo stesso del Pilastro Gabrielli (vedi). Dopo le corde fisse dell’avvicinamento, poco prima di arrivare all’attacco vero e proprio del Pilastro Gabrielli, sostare su albero alla base di un                                evidente diedrino grigio (15 minuti).

Discesa

La stessa del Pilastro Gabrielli (1 ora)

Relazione

L 1 – Salire il diedrino, poi uno strapiombino e una placchetta fino alla sosta su comoda cenga (5, poi IV, 30 mt)

L 2 – Salire la bella fessura sulla destra, all’altezza di un tettino traversare a sinistra a prendere una bella lama che si segue fino alla sosta (V+, 35 mt)

L 3 – Breve tiro in traverso verso sinistra seguendo una fessura orizzontale (V+, 15 mt)

L 4 – Salire il bel diedro fessurato con arrampicata tecnica (VI, 35 mt)

L 5 – Proseguire per il diedro che diventa strapiombante (VI+, 20 mt, diversi chiodi)

L 6 – Brevissimo tiro, dapprima in traverso a sinistra poi dritto fino a un terrazzino (VI, 10 mt)

L 7 – Salire un diedrino friabile e una paretina verticale, uscendo a sinistra. Un canalino terroso porta alla sosta alla base di un muro marrone strapiombante (V+, 45 mt)

L 8 – Superare una fessura-diedro ed uno strapiombino friabili pervenendo a rocce rotte che portano alla fine delle difficoltà (V+, 40 mt). Tiro che richiede attenzione.

05 Fiore di corallo Tracciato ok5 - MANDREA NORD

FIORE DI CORALLO

M. Giordani, F. Zenatti, G. Manica 1983

350 metri, 10 tiri, VI+/VII/R4

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Uno dei più grandi capolavori della valle del Sarca.

Una successione logica di straordinarie fessure e diedri strapiombanti. Arrampicata di grande soddisfazione, sempre atletica ed esigente, su roccia super. Alcuni tratti in cui non è facile proteggersi richiedono padronanza del grado. Pochissimi i chiodi in parete, ma le soste sono attrezzate a fix. Utile una doppia serie di friend fino al 4 bd, meglio fino al 5

Attacco

Da Arco (zona Casinò) seguire la strada per Laghel e dopo una ripida salita, ad un bivio in prossimità della chiesetta bianca prendere la ripida strada asfaltata che sale a sinistra, compie alcuni tornanti e si inoltra lungamente nella valle. Parcheggiare al suo termine, in prossimità di una fontanella. Salire a sinistra per strada forestale (sbarra) che conduce in breve sotto le pareti (fin qui l’avvicinamento è uguale a quello del Pilastro Gabrielli). Raggiunta poco oltre la presa dell’acquedotto, continuare verso Nord per traccia che costeggia la parete, dopo una discesa ripida seguire una stretta rampa che sale verso dx ad un boschetto sospeso, dove si trova l’attacco della via (30 minuti).

Discesa

La stessa del Pilastro Gabrielli (1 ora)

 

05 Fiore di Corallo3

 

          Relazione

L 1 – Aiutandosi con l’albero posto all’attacco salire una paretina e traversare poi a destra ad un diedrino che si risale sino alla sosta (VI)

L 2 – Salire una fessurina, poi rocce più articolate e infine una bella lama (VI+)

L 3 – Salire una fessura fin sotto un tetto e costeggiarlo verso sinistra fino al suo termine, dove una fessura consente di salire alla sosta (VI e passi di VII, proteggibilità a mezzo friend non sempre affidabili a causa della levigatezza della fessura svasata sotto il tetto)

L 4 – Per rampa più facile fin sotto degli strapiombi che si evitano con una traversata verso sinistra (alberello di fico) raggiungendo una fessura verticale che porta alla sosta (VI + e passi di VII)

L 5 – Salire il muretto sopra la sosta, passo di VII obbligatorio e che un fix di passaggio, l’unico della via, non protegge da una eventuale caduta sulla cengia di sosta. Per rocce più facili ad una rampa obliqua verso sinistra che conduce alla sosta (VII, V)

L 6 – Salire l’evidente diedro un po' liscio a sinistra della sosta e superare un muretto (ch) che porta alla sosta (V+, VI)

L 7 – Traversare a sinistra con percorso da individuare con attenzione (qualche chiodo) fino ad una lama sporgente, che si supera direttamente. Salire in obliquo a sinistra fin sotto un tetto, poi a destra per canne ad un terrazzino (VI+ e VII-, sosta su clessidre).

L 8 – Salire a sinistra della sosta superando un tettino, poi per rocce più facili alla sosta su albero (VI+ poi IV)

L 9 – Salire lungamente in obliquo verso sinistra, superare un muretto delicato e continuare verso sinistra fino alla base di un diedro che si intuisce portare fuori dalle difficoltà, ormai tra gli alberi della sommità (IV e VI).

L 10 – Traversare a sinistra seguendo una fessura orizzontale, poi salire per diedro e roccette (un fix di una via sportiva) arrivando al termine del bosco dove si sosta nei pressi della recinzione di una villetta (IV)

06 martini tranquillini schizzo ok6 - CIMA ALLE COSTE

VIA MARTINI-TRANQUILLINI-PEROTONI

S. Martini, M. Tranquillini, M. Perotoni, 1972

500 metri, 13 tiri V+ e VI/R3

Esposizione Est

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Tra le più ripetute della Valle, vince la grandiosa parete di Cima alle Coste con piacevole arrampicata su difficoltà classiche. Una serie di friend fino al 4 bd è sufficiente ad integrare i pochi chiodi presenti nella parte alta della via.

Attacco

Da Arco verso Nord risalire la Valle del Sarca, superare il paese di Dro e prima di giungere al parcheggio delle Placche Zebrate, in località Lago, individuare sulla sinistra una stradina con indicazioni per il Lago Bagattoli. Seguirla brevemente e parcheggiare nei pressi del lago. Si segue la strada forestale (sbarra) che sale dapprima verso destra, poi con un tornante piega a sinistra (Sud) per un lungo tratto in leggera salita fino ad incontrare un ometto che segnala l’inizio di una traccia sulla destra. Seguirla nel bosco con ripida salita fino alla base di una placconata. Montare sulla placconata seguendo tracce su cengette e facili passaggi su roccia con salita obliqua verso destra, fino ad una più evidente traccia che porta sotto la levigata parete dello Scudo. La via attacca all’estremità destra dello scudo, dove questo forma un evidentissimo diedro con la più articolata parete sulla destra. (40 minuti dall’auto).

Discesa

Per traccia (ometto) si raggiunge in breve una strada forestale, che si segue verso sinistra (Sud) fino ad incontrare un cartello che segnala il sentiero per Dro (n. 425). Percorrerlo fino a valle, poi per sterrata seguendo le indicazioni si ritorna al Lago Bagattoli (ore 1,30).

 

Relazione

La via si può dividere in tre parti.

La prima parte, facile e non molto interessante, sale con 5 tiri l’evidente diedro. Attrezzata con qualche fix. Le soste sono attrezzate per la discesa in doppia. In questo primo tratto prestare attenzione alla caduta di sassi.

La seconda parte supera con tre tiri la zona centrale di placche abbattute e un po’ erbose, in obliquo a sinistra fino alla base della gialla e strapiombante parete superiore. In questo tratto il percorso non è molto evidente e richiede un po’ di fiuto. Qualche chiodo sparso.

La parete superiore viene vinta con cinque tiri entusiasmanti, che da soli varrebbero la salita.

Soste in genere comode e sicure, pochi i chiodi lungo i tiri, che si proteggono comunque bene con i friends. Roccia in genere ottima, con qualche lama da trattare con attenzione.

L1 – L2 – L3 – L4 – L5 – Salire interamente il diedro, con passaggi a volte levigati ma su difficoltà contenute (IV e passi di V). Qualche fix sui tiri e soste attrezzate per doppia. Alla fine del diedro si obliqua a sinistra per tracce alla placconata centrale.

L 6 – Si traversa lungamente in obliquo a sinistra su tracce e facili rocce. I. Sosta su           spit.

L 7 – L8 – Salire per placche e saltini più ripidi (un diedrino più difficile da proteggere con friends) fino ad un terrazzo ben battuto alla base del diedro della parete superiore. IV e V. Sosta su albero.

I cinque tiri seguenti, nei quali si concentrato le difficoltà della via, offrono un’arrampicata a tratti entusiasmante, sempre piacevole e in un ambiente grandioso.

L9 – Salire per parete mirando all’evidente diedro, che si sale poi fino ad un terrazzino. V+

L10 – Raggiungere una lama/fessura che si sale (superando anche un tettino) fino ad arrivare sotto un pronunciato tetto, che si evita traversando a sinistra fino ad una scomoda sosta con chiodi a pressione. VI, tiro chiave. Alcuni chiodi, utili i friends.

L 11 – Salire un camino e poi un diedro fino ad una sosta in una zona più abbattuta. V+

L 12 – Proseguire per una bellissima lama gialla, superare un albero e continuare fin sotto un tetto. Traversare a sinistra per cengette (attenzione ad alcune grosse lame dall’aspetto un po’ inquietante) fino ad una comoda sosta. V+

L 13 – Superare una paretina verticale (chiodo) e poi per bellissimo diedro al canale finale, che richiede qualche attenzione (tiro di oltre 50 metri, frazionabile sostando ad un albero lungo il diedro). V+ all’inizio, poi IV.

La parte iniziale di questa via (il facile diedro dei primi 5 tiri) era già stata percorsa nel 1966 da H. Steinkotter, H. Holzer e R. Messner, che avevano poi proseguito sulla destra su roccia precaria, per cui l’itinerario non ebbe seguito. La grande intuizione dell’Accademico Sergio Martini è stata quella di proseguire sulla sinistra, forzando la strapiombante parete superiore con intelligente percorso attraverso i tetti che la caratterizzano, realizzando così un grandioso itinerario con difficoltà sostenute, ma che si lasciano superare con più facilità di quanto si potrebbe stimare dal basso.

Un interessante filmato sulla Via Martini-Tranquillini-Perotoni

07 nagual schizzo 5 ok7 - PALA DELLE LASTIELE

VIA ISOLA DI NAGUAL

F. Giacomelli – F. Stedile 1982

300 metri, 11 tiri; VI con due passi in A0 (in libera 6b)/R3

Esposizione Sud Est

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Linea assai logica lungo una serie ininterrotta di diedri di bella roccia.

L’attrezzatura in posto (chiodi normali) può essere agevolmente integrata con una serie di friends e kevlar per le clessidre.

Salita paragonabile al Diedro Manolo al Dain, anche se un pò meno continua e di qualità leggermente inferiore. Merita sicuramente di essere percorsa.

Fabio Giacomelli e Fabio Stedile, accomunati dall’apertura di questa bella via, sono stati accomunati anche da un tragico destino, morendo entrambi, a diversi anni l’uno dall’altro, sul Cerro Torre in Patagonia.

07 Nagual3isnag 068Attacco

Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), poco oltre il parcheggio delle Placche Zebrate parcheggiare sulla destra presso l’ingresso della pescicoltura.

Attraversare la strada e seguire una sterrata (sbarra) prendendo a destra ad un bivio. Poco più avanti reperire sulla sinistra una traccia che sale nel bosco e porta alla base della parete. L’attacco è presso un diedro obliquo verso destra (scritta Nagual). 30 minuti.

Discesa

Abbastanza lunga ma facile. Dall’uscita della via traversare lungamente nel bosco verso Nord (rade tracce) salendo leggermente fino alla sommità del Dain, dove si incontra una strada forestale. Da questo punto la discesa è comune a quella del Dain. Seguire la forestale direzione nord (verso il Casale) e poi per i tornanti in discesa (scorciatoie segnate con bolli rossi) fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino. Costeggiare verso Sud il campo da cross, seguire la forestale e poi la pista da mountain bike fin sotto le Placche Zebrate e poi all’auto (ore 1,30).

Nota: esiste anche una seconda possibilità di discesa dalla sommità, più breve ma meno facile da trovare. Dall’uscita della via ci si incammina verso Nord (in direzione della Cima del Dain) traversando un pendio di erba e arbusti, come per la soluzione precedente.. Quando si intravede verso il basso un ripido prato senza vegetazione lo si discende fino all’inizio di un rado ripido bosco nel quale si intravede un’esile traccia che si segue con qualche breve passo di facile arrampicata fino a pervenire poco più in basso dell’attacco della via. Per tracce a vista in direzione dell’auto.

          Relazione

L 1 – Salire il diedro fino alla sosta, alla base del grande strapiombo giallo. IV. E’ possibile anche salire la parete articolata a destra dello strapiombo (più facile), prima in obliquo verso destra e poi in obliquo a sinistra alla cengia di sosta.

L 2 – Superare il diedro giallo, dapprima verticale poi obliquo a sinistra, traversare alla fine a sinistra su placca ad un gradino (sosta possibile) e proseguire per fessurina e diedrino fino ad un terrazzino. 6b/AO alla partenza, poi V+

L 3 – Seguire il diedro a lame appena a destra della sosta e al suo termine traversare a sinistra ad una piccola terrazza. Sosta su albero. V+

L 4 – Salire per diedro giallo a sinistra di un liscio scudo, fin sotto un tetto. Traversare a sinistra e poi per diedrino grigio alla sosta. V+ e VI

L5 – Continuare per diedro fessurato con arrampicata ideale fino ad una sosta su chiodi. V+

L 6 – Ancora per il diedro fino alla sosta scomoda sulla parete di destra, in una specie di nicchia. V+ continuo.

L 7 – Superare il diedro-fessura soprastante, all’inizio strapiombante (6b/A0, alcuni chiodi ravvicinati), poi più facile (V) fino ad una piccola sosta.

L 8 – Sempre lungo il diedro fin sotto il tetto che lo chiude. Traversare ora a destra ad un comodo terrazzo (V+). Sosta su albero con cordone e maillon di calata. Da questo punto (fine delle maggiori difficoltà e della roccia ottima) ci si può calare lungo la via con 3 o 4 doppie.

Lo spirito alpinistico e la completezza dell’esperienza consigliano tuttavia sicuramente di continuare fino al termine della parete.

L 9 – In obliquo a destra su roccette ed erba per oltre cinquanta metri, sostando ad un albero o improvvisando una sosta su friend.

L 10 e 11 – Ancora un po’ in obliquo a destra e poi direttamente per salti al bosco sommitale.

In questi ultimi tre tiri il percorso non è obbligato e si sosta su alberi. Con un po’ di fiuto le difficoltà non superano il IV+, ma il terreno impone cautela.

Al termine del secondo tiro si trova un fix e poi appena a destra del quarto tiro una serie di fix che sale poco a destra del nostro itinerario. Si tratta di una via che, irrispettosa di storia e logica, interseca questo itinerario e della quale nessuno ha mai avuto il coraggio di rivendicare l’apertura.

          8 - DAIN DI PIETRAMURATA

VIA CESARE LEVIS (conosciuta anche come “Diedro Manolo”)

M. Zanolla, G. Groaz, M. Furlani, 1978

300 metri, 8 tiri; VI/R3

Esposizione Est

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Al centro della parete segue una linea straordinaria di diedri e fessure giallo/grigi.

Arrampicata atletica su roccia ideale. Chiodatura non abbondante ma ben integrabile

Una delle classiche più ripetute della Valle.

Attacco

Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placche Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.

Seguire poi la strada che costeggia il 09 dain schizzo okIn rosso il Diedro Manolo, in azzurro la Kerouac, in verde SiebensclaferCrossodromo (direzione Sud) fino alla fine delle recinzioni. Individuata una marcata traccia sulla destra, la si segue fino alla base dell’evidente parete. Ad un ometto non prendere una traccia sulla destra (porta all’attacco di Siebenschlafer) ma continuare a salire per il sentiero principale fino ad individuare delle tracce sulla destra che portano ad una rampa (qualche breve passaggio di arrampicata) che conduce verso la base del diedro grigio/giallo posto appena a destra di quello più evidente, chiuso da enormi tetti gialli, percorso dalla Via Big Bang. Sosta alla base di una paretina (30 minuti).

                    Discesa

Abbastanza lunga ma facile. Seguire la traccia evidente nel bosco fino ad una strada forestale. Seguirla in direzione nord (verso il Casale) e poi per i tornanti in discesa (scorciatoie segnate con bolli rossi) fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud, freccia in legno) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino (1 ora)

Relazione

L 1 - Salire la paretina o il suo spigolo destro e la rampa successiva, su buona roccia pulita dal passaggio. Sosta su albero. IV

L 2 – Traversare a sinistra e salire ad un terrazzino. Sosta su albero. III

L 3 – Entrare nell’evidente diedrone, superare un grosso albero e sostare a destra su un terrazzino. IV e V

L 4 – Continuare per il diedro, ora giallo e più verticale, fin sotto al tetto che lo chiude e che si supera sulla destra, nel punto di minor resistenza, tramite una fessura (passaggio chiave, utile un friend grande). V+ e VI

L 5 – Salire ancora per il diedro in obliquo a destra e poi direttamente con arrampicata entusiasmante ed esposta. Pochi chiodi, possibilità discrete di integrare. Sosta in una nicchia. V+

L 6 – Ancora un bel tiro per fessure, lame e diedri verticali, V+

L 7 – Seguire sempre il diedro superando un tettino sulla sinistra, fino ad una comoda sosta su cengetta sotto il muro finale. V+

L8 – Salire direttamente per diedrini grigi superficiali fin sopra una grande scaglia, dalla quale brevemente per un diedro giallo e un traverso a destra si raggiunge una sosta su albero, appena sotto il bosco sommitale. V e V+

Alcuni facili passaggi verso destra conducono ad una traccia ben battuta nel bosco.

 

                               9 - DAIN DI PIETRAMURATA

VIA KEROUAC

L. Massarotto, G. Groaz, P. Baldo 1981

300 metri, 8 tiri; VI+, un tratto di A0 (in libera 6c)/R3

Esposizione Est

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Attacco

Lo stesso della Via Cesare Levis (vedi)

 

Discesa

La stessa della Via Cesare Levis (vedi)

 

Relazione

L 1 – Salire un facile spigolino, obliquare a sinistra e per diedri e rampe andare a sostare ad un albero. Tiro in comune con la via Cesare Levis (IV)

L 2 – Salire in obliquo verso destra, superare in diedrino e sostare alla base del grande camino che separa un avancorpo dalla parete principale (III)

L 3 – Scalare un diedro giallo sulla sinistra (all’inizio roccia delicata), superare uno strapiombetto e proseguire per bella fessura da proteggere fino ad un terrazzino sulla destra (V+)

L 4 – Proseguire nella fessura gialla e poi per diedro fino ad una scomoda sosta appesa (VI+)

L 5 – Continuare per il bellissimo diedro e quando strapiomba obliquare a destra a raggiungere un altro diedro giallo che si segue fino al suo termine, traversando infine ad un esposto pulpito sulla destra (V e VI)

L 6 – Superare il muretto articolato sopra la sosta e poi all’altezza di un chiodo obliquare a destra a prendere un diedro seguito da un muro con diversi chiodi approdando ad una cengia alberata (tiro lungo, attenzione agli attriti, all’inizio V+ e VI, poi VII+ oppure A0 il muro finale)

L 7 – Traversare facilmente verso sinistra sulla cengetta andando a sostare su friend alla base di un diedrino.

L 8 – Salire il diedro fino ad un alberello, superare alcuni salti e obliquando a sinistra montare sopra un piccolo pinnacolo oltre il quale un muretto (ch) e poi rocce rotte portano al bosco sommitale (V).

 

 

10 Sieben10 - DAIN DI PIETRAMURATA

VIA SIEBENSCHLAFER

T. Zuech, M. Gamper, 1983

300 metri, 9 tiri (+ 110 metri facili nel bosco terminale); VI +/R3

Esposizione Est

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Itinerario per lunghi anni dimenticato, è stato di recente riscoperto e comincia ad essere percorso con una certa regolarità. Linea molto logica ed arrampicata bellissima e varia ne fanno una perla da non mancare.

A parte le soste (tutte presenti e sicure) i chiodi lungo i tiri sono pochissimi ma è facile proteggersi ottimamente con i friends.

10 Sieben3

 

Attacco

Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placce Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.

Seguire poi la strada che costeggia il Crossodromo (direzione Sud) fino alla fine delle recinzioni. Individuata una marcata traccia sulla destra la si segue fino alla base dell’evidente parete. Fin qui l’avvicinamento è uguale a quello della Via Cesare Levis. Ad un ometto prendere una traccia sulla destra e salire per una rampa alberata verso destra (roccette e qualche passo di arrampicata, tracce). L’attacco, presso un facile diedrino grigio, è in comune con la via Par Condicio (scritta “PAR” sbiadita).

Prestare attenzione ad imboccare la rampa giusta, osservando preventivamente la parete da lontano e prendendo come riferimento i due evidenti tetti orizzontali presso i quali passa il secondo tiro della via (30 minuti).

10 Sieben2

 

10 Sieben5

Discesa

La stessa della Via Cesare Levis (vedi)

Relazione

L 1 - Salire il diedrino e poi obliquare a destra su cengetta (Par Condicio devia a sinistra) sostando su albero alla base di un bel diedro giallo/grigio verticale. III

L 2 – Salire il diedro e sostare su terrazza con alberi alla sua sommità. IV+

L 3 – Salire la grigia placca verticale soprastante (i primi metri sono i più difficili), traversare lungamente a sinistra, poi in verticale per pochi metri e infine a destra su cengetta dove si sosta. Arrampicata delicata e di movimento su ottima roccia grigia e rugosa, 3 - 4 chiodi non superlativi, possibilità di aggiungere qualche friend. VI poi V+

L 4 – Salire a destra una fessura verticale, dapprima ben proteggibile, poi più larga e un pò expo ma di ottima roccia, uscendo alla fine verso sinistra ad una sosta su albero con cordone. V+ e VI

L 5 – Verso destra e poi verticalmente si supera una zona terrazzata, andando a sostare su un grosso albero alla base di un camino giallo dall’aspetto poco rassicurante. IV e III

L 6 – Salire il camino (che in realtà è solido) fino ad un terrazzino di sosta (cordone incastrato). V e IV

L 7 – Traversare a sinistra e salire il bellissimo diedro giallo soprastante (ben proteggibile a friends) fin sotto un tettino (chiodo). Traversare a sinistra e sostare su una stretta cornice. V+

L 8 – Salire la larga fessura soprastante (un tratto improteggibile ma non troppo difficile) uscendo a destra in obliquo fin sotto un diedrino. Salirlo fino al tetto che lo sbarra e uscirne a sinistra (sosta su albero). V+ la fessura iniziale, VI il diedrino e VI+ l’uscita.

L 8 – Per facile diedrino grigio al bosco finale. IV

Ancora due facili lunghezze facoltative per salti e alberi (qualche cordone indica il percorso, tracce) conducono alla spianata sommitale dove si incontra la traccia di discesa.

11 tenente torretta schizzo ok11 - PIAN DELLA PAIA – Parete Gandhi

VIA IL MAGNESIO DALLA ROCCIA

Conosciuta anche come VIA TENENTE TORRETTA

G. Stenghel, F. Sartori, F. Nicolini, 1983

200 metri, 6 tiri V+ e VI/R3

Esposizione Est

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Un monumento al più puro stile dell’arrampicata tradizionale degli anni Ottanta.

Se non vi fate spaventare dal primo tiro, erboso e un po’ friabile ma non difficile, potrete godere di un’arrampicata molto bella su roccia ottima e dalla logica impeccabile. Via ben protetta a chiodi normali, da integrare con friends lungo le fessure. Friends medi necessari per la lunga lama da Dulfer del quarto tiro.

Il percorso è talmente logico che seguendo l’invito della roccia, anche sui compatti muri superiori, a tratti un pò enigmatici, ci si imbatte senza errore sui chiodi presenti.

Attacco

Da Arco verso Nord (direzione Pietramurata/Sarche), superate le Placche Zebrate si prende a sinistra una strada con indicazioni Crossodromo e Hotel Ciclamino, presso il quale si parcheggia.

Costeggiando a Nord il Crossodromo si segue una traccia che sale ripida nel bosco e si immette poi su una forestale. Seguirla brevemente verso sinistra fino ad un tornante verso destra, dal quale di stacca una traccia ben battuta che conduce in breve alla base della parete (ore 0,30). Attacco alla base di una rampa erbosa obliqua a sinistra, posta appena a sinistra di una profonda spaccatura- camino obliqua a destra.

Discesa

Nel bosco sommitale seguire le tracce in direzione del Monte Casale (Nord) fino alla forestale che

riporta in valle. Giunti al punto in cui si era raggiunta la forestale andando all’attacco, si può percorrere in discesa la ripida traccia del mattino (45 minuti all’auto), oppure seguire la stradina fino ad una zona pianeggiante con una palina che segna il rientro dalla ferrata Che Guevara. Abbandonare la strada e prendere a destra una traccia (direzione Sud) che con qualche saliscendi porta al campo da cross dietro all’Hotel Ciclamino (1 ora).

11 Via Tenente TorrettaRelazione

L 1 – Seguire la rampa con rocce erbose e un po’ friabili fino ad un grosso albero al quale si sosta. III e IV, si rinviano due alberelli.

L 2 – Ora su roccia buona superare una placca verticale (chiodo) e poi diedrini obliqui a sinistra fino ad una cengetta che si segue verso sinistra, sostando ad una pianta (pochi metri più a sinistra si vede una sosta a fix della Via Diana). VI la placca, poi V+.

L 3 – A destra della sosta salire un diedro/fessura verticale di ottima roccia (due chiodi) fino ad una stretta cornice sulla quale si traversa alcuni metri a destra alla sosta. VI e V+.

L 4 – Salire una bellissima lama verticale in Dulfer (da proteggere) e poi un diedro strapiombante (due chiodi) sulla destra, fino ad un comodo terrazzino dietro un pilastrino staccato. V+ e VI

L 5 – Dapprima in obliquo a sinistra e poi a destra su placche bellissime ad un piccolo gradino di sosta. Tiro splendido, protetto da alcuni chiodi posizionati in punti strategici, visibili solo all’ultimo momento seguendo la logica della parete. V e VI

L 6 – Verticalmente sulla destra della sosta fino ad una cengetta (alberello), che si segue verso destra fino ad un chiodo, che indica il punto in cui forzare direttamente il muro finale. Sosta nel bosco sommitale. V e IV+

12 - MONTE CASALE – PRIMO PILASTRO (o PILASTRO CRISTINA)

Il Primo Pilastro del Casale è un possente avancorpo che, assieme al Secondo Pilastro, delimita sulla destra la ciclopica parete principale del Monte Casale (Parete Est). Il Primo Pilastro è formato da una punta principale a sinistra (Pilastro Cristina, sul quale corra la Via omonima) e una punta secondaria a destra (Pilastro Giusti, sulla quale corre la Via del Missile – vedi relazione nr. 13).

 

12 cristina damoIMG 20201017 154814 damoVIA CRISTINA

M. Furlani, L. Puiatti, 1980

400 metri, 15 tiri (con la variante iniziale) VI-, spesso V/R3.

Esposizione Est

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Via di ampio respiro, di stampo dolomitico

Arrampicata prevalentemente in diedri e fessure, alterna tratti di ottima roccia a tratti da affrontare con cautela, soprattutto sul facile. Lungo la via qualche chiodo e cordoni su sassi incastrati, indispensabili i friend fino al 4 bd. Le soste sono state riattrezzate di recente con anelli.

Attacco

Da Arco verso Trento raggiungere Pietramurata. All’uscita Nord del paese (piccola rotonda) girare verso sinistra (Ovest, strada che conduce alla grande cava). Dopo pochi metri parcheggiare e prendere la forestale sulla destra (verso Nord): dopo circa 300 metri individuare sulla sinistra una traccia (ometti) che sale nel bosco, poi per ghiaioni e roccette con qualche bollo rosso puntando all’evidente colatoio che delimita a sinistra la parete. L’attacco della variante consigliata è poco a destra del colatoio, in corrispondenza di una netta fessurina grigia di ottima roccia (50 minuti).

L’attacco originale (sconsigliabile) è invece nel colatoio e segue poi lungamente in obliquo a destra una cengia friabile fino a prendere il pilastro vero e proprio.

Discesa

Traversare nel bosco verso destra e in discesa raggiungere una forestale che si segue verso sinistra fino al sentiero 427 che riporta in valle (ore 1,15)

                               Ph archivio Bianchi-Meli Relazione

L 1 - Attaccare per una fessura grigia di ottima roccia e seguirla sino al suo termine; V+/VI-, friend 0.4 e 0.5 BD.

Spostarsi a destra con passo su placca (V) e proseguire su cengia erbosa sino alla sosta con anello; 25 m.

L 2 - Continuare per cengia erbosa verso destra.

Pochi metri dopo la partenza dalla sosta non passare a sinistra di uno spuntone, bensì a destra, scendendo leggermente.

Proseguire in diagonale, sempre verso destra, per facili gradoni sino all'anello di sosta; 25 m, II e III.

L 3 - Traversare a destra per alcuni metri, sino a portarsi sulla verticale di un diedro rosso.

Alzarsi su placca (1 chiodo), con un passo leggermente a sinistra su roccia delicata (V+).

Raggiungere il diedro e percorrerlo interamente sino al terrazzino di sosta.

V+/VI-, 2 chiodi, 1 alberello, friend 1-2 BD, 35 m.

L 4 - Percorrere un diedro (V), poi in diagonale verso destra su rocce facili sino alla sosta (II); 25 m.

L 5 - Dalla sosta alzarsi in verticale e poi continuare in diagonale a sinistra, su placca di ottima roccia a tacche (V+, un passo di VI, chiodi). Dove le difficoltà calano (IV) non proseguire in diagonale a sinistra, bensì in verticale per raggiungere l'anello di sosta; 30 m.

L 6 - Dalla sosta affrontare una placchetta leggermente concava (III, friabile), poi proseguire per placche appoggiate di roccia poco solida (inizialmente II, poi I) sino alla cengia; 50 m.

Qui la cengia che proviene da sinistra si trasforma in un canale.

L 7 - Dalla sosta proseguire sul fondo del canale, piuttosto appoggiato, per circa 25 m (III, roccia slavata dall'acqua, ma solida); al termine del tratto più appoggiato superare alcuni blocchi, qui possibile sosta intermedia.

Ora il canale si fa più ripido: affrontare la parete di destra, lungo una fessura (V+, passo atletico, alcuni cordoni su chiodi e sassi incastrati). Uscire sulla destra e raggiungere la sosta con anello; altri 25 m, in totale 50 m.

L 8 - Dalla sosta spostarsi a destra su erba, proseguire poi più direttamente per rocce facili ma friabili e infine arrivare in sosta su un terrazzo; III, 40 m.

L 9 - Affrontare il muretto friabile, partendo un metro a destra della sosta (più solido, passo tecnico), poi salendo proprio sulla sua verticale. Spostarsi a destra ed entrare in un diedrino bianco (ancora un po’ friabile). Proseguire per rocce più facili sino all’imbocco di un diedro-camino, dove si sosta; un passo di VI, poi V, 30 m.

L 10 - Salire il diedro-camino per alcuni metri, poi spostarsi sulla faccia destra seguendo una fessura sino ad arrivare ad una selletta tra la parete principale a sinistra e un pinnacolo a destra; V, 30 m.

                               Ph archivio Bianchi-Meli L 11 - Si attraversa camminando a destra ed in leggera discesa per alcuni metri, poi si imbocca un diedro grigio compatto, con fessura di fondo (1 chiodo). Si arriva in sosta su terrazzino; V, 25 m.

L 12 - Traversare a sinistra per entrare in un breve diedro chiuso da un tettino (1 chiodo), che si supera sulla sinistra. Poi per fessura (sassi incastrati con cordoni) e rocce più facili sino in sosta su placca gialla; V, 30 m.

L 13 - Salire la fessura sopra la sosta e poi spostarsi a sinistra per evitare una zona franata.

Proseguire verticalmente sino alla sosta su spuntone; alcuni sassi incastrati con cordone, VI, 40 m.

L 14 - Dalla sosta spostarsi leggermente a sinistra, poi salire la bella fessura di ottima roccia, utili i friend 3 e 4 BD.

Dopo un passo non facile (VI, chiodo con cordone) le difficoltà diminuiscono e si continua verso sinistra superando alcuni saltini (V).

Superare alcuni blocchi e raggiungere verso sinistra il terrazzo dove si sosta. Qui è stato rimosso il fix con anello sulla placca che si trova a destra: occorre attrezzare la sosta su albero; 40 m.

L 15 - Proseguire per fessura, un po' sporca di terra, superare un albero e affrontare il diedro finale, bello e articolato, uscendo verso sinistra, qualche cordone; V, 30 m.

 

03 pilastro gabrielli schizzo ok13 - MONTE CASALE – PRIMO PILASTRO (o PILASTRO GIUSTI)

VIA DEL MISSILE

G. Stenghel, A. Baldessarini, 1981

400 metri, 11 tiri V+, VI e VI+. Due passi di 6b (azzerabili)/R3.

Esposizione Est

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“Grande capolavoro di intuito e logica. La roccia ottima e la linea esemplare rendono la salita spettacolare e di grande soddisfazione.”: così si esprime Diego Filippi nella sua guida “Pareti del Sarca” e non si può che essere d’accordo.

Una delle più belle vie classiche della valle. Anzi, una delle più belle in assoluto.

Di sicura soddisfazione e di buon impegno in relazione alle difficoltà, anche per la presenza di diversi tiri particolarmente atletici e da proteggere.

Attacco

Da Arco verso Nord risalire la Valle del Sarca e appena usciti dal paese di Pietramurata, all’altezza di un ingrosso di frutta e verdura, prendere sul lato opposto (sinistra) una stradetta e parcheggiare dopo pochi metri (indicazioni per il Sentiero Croz dei Pini e la Ferrata Che Guevara).

Prendere la strada forestale che sale leggermente verso Nord e dopo un po’ individuare sulla sinistra una traccia (ometto) che sale nel bosco. Seguirla lungamente (ad un bivio prendere a destra) fino a giungere allo zoccolo del Pilastro. Le tracce (facili ma esposte) portano sopra lo zoccolo e poi proseguono in falsopiano verso destra, raggiungendo un canale che si risale per un breve tratto, fino ad individuare sulla sinistra la possibilità di accedere ad una cengetta che si inoltra nella parete.

Il punto esatto di attacco non è evidentissimo e richiede un certo intuito (1 ora dall’auto).

Discesa

Seguire le tracce nel bosco verso destra fino ad incontrare una forestale, che si percorre per circa un chilometro, incontrando poi il sentiero segnato che riporta in valle (ore 1,30).

Relazione

L 1 – Salire alla cengia e percorrerla verso sinistra, sostando ad un buon albero. III

L2 - Proseguire per la cengia fino ad entrare in un grande diedro che si sale con bella arrampicata fino ad un gradino di sosta sulla destra. V+

L 3 – Traversare la parete gialla sulla sinistra (un passo in discesa) e poi risalire ad un terrazzino. Alcuni vecchi chiodi, VI e VI+

L 4 – Seguire il verticale diedro grigio seguente, interamente da proteggere a friends. VI

L 5 – Ancora nel diedro (passo difficile all’inizio, protetto da due chiodi), andando poi a sostare sulla sinistra. VII o A0 all’inizio, poi VI.

L 6 – Superato un muretto, salire verso destra una fessura-diedro a tratti strapiombante, da proteggere a friends. VI

L 7 – Salire il camino seguente e sostare al suo termine sulla sommità di un pilastro (la “testa” del missile). V+

L 8 – Traversare brevemente a destra, salire un diedrino e poi in obliquo andare a sostare su una cengetta. V+

L 9 – Salire per diedri e paretine fino ad una sosta su albero sotto la grigia parete terminale. V

L 10 – Salire il bellissimo diedro a sinistra della sosta, con passaggio difficile alla fine, nel superamento di un tettino. VI+. In alternativa si può salire la fessura a destra della sosta, con difficoltà analoghe.

L 11 – Una breve lunghezza facile porta nel bosco sommitale.

14 diedro maestri schizzo ok14 - DAIN DELLE SARCHE – PARETE DEL LIMARO’

DIEDRO MAESTRI

C. Maestri e C. Baldessari 1957

400 metri, 12 tiri VI+ e A0/R3

Esposizione Ovest

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La via percorre l’immenso diedro ben visibile dalla strada che da Sarche sale a Tione.

Aperta in quattro giorni con largo impiego di mezzi artificiali, si percorre oggi quasi interamente in libera, con arrampicata atletica piuttosto faticosa. Una serie di friend è senz’altro raccomandabile per integrare i pur numerosi chiodi presenti (alcuni a pressione).

La via, nonostante qualche tratto un po' delicato, presenta un’arrampicata piacevole e merita senz’altro una ripetizione per il suo significato storico, per la linea straordinaria e l’ambiente molto suggestivo.

Attacco

Dalla rotonda nel centro di Sarche prendere per Madonna di Campiglio e subito dopo voltare a destra tra le case raggiungendo il parcheggio della ferrata Pisetta (indicazioni). Tornare a piedi sulla statale e seguirla in direzione di Madonna di Campiglio. Superare il ponte sulla Sarca e proprio sul primo tornante (verso sinistra) prendere a destra una sterrata che scende nel greto del fiume. Proseguire per traccia e attraversare a pelo d’acqua una paretina verticale per mezzo di una corda fissa (faticoso, meglio arrivare già imbragati e con un paio di rinvii a portata di mano). Ci si trova di fronte a dei grossi cavi metallici che consentono di attraversare agevolmente il corso d’acqua portandosi sotto la parete: una traccia tra gli alberi porta al punto più alto alla base del grande diedro, dove si trova l’attacco (20 minuti dall’auto).

 

                               Discesa

Salire brevemente nel bosco per vaghe tracce e raggiungere in breve un ampio sentiero che si prende verso destra (Est) scendendo con qualche breve cavo fino al bosco sotto la parete Est del Dain. Una ripida traccia sulla destra riporta al paese delle Sarche, in prossimità del parcheggio (1 ora).

Relazione

L 1 – Obliquare a sinistra e salire un diedro, superare un alberello e uno strapiombetto e poi uscire a sinistra su rocce rotte fino alla sosta su albero (V+ e VI, roccia delicata).

L 2 – Salire per rocce gradinate e poi obliquare a destra entrando in un boschetto. Sosta su albero alla base di un diedro con una grande edera sulla sinistra (II)

L 3 – Salire il diedro, prima obliquo a destra e poi dritto, sostando a sinistra ad un albero (VI all’inizio, poi più facile)

                               L 4 – Continuare per il diedro che piega a destra e fiancheggia una liscia placconata gialla che si supera, andando a sostare scomodamente dove il diedro si raddrizza (VI)

L 5 – Di nuovo in diedro sino alla sosta successiva (VI+, AO)

L 6 – Passare sotto il tetto a destra e superare lo strapiombo successivo traversando poi a sinistra su roccia arancione ad un comodo terrazzo (VI)

L 7 – Salire a destra per bella fessura (Fessura Giacomelli) e obliquare poi a sinistra alla sosta su comodo terrazzino (V+ e VI+)

L 8 – Per fessura raggiungere una nicchia e continuare per una fessura-diedro fino alla sosta alla base di un camino ad imbuto (VI+ e A0)

L 9 – Scalare il camino e uscirne ben presto a sinistra a prendere un diedro che porta alla sosta su terrazzino con pianta (VI)

L 10 – Proseguire nel diedro e prima che si trasformi in fessura traversare a destra e poi risalire una zona erbosa verso sinistra fino ad una comoda sosta su cengia (V+)

L 11 – Salire il diedro a destra della sosta e sostare sotto un tettino (V+)

L 12 – A destra del tetto risalire una lama compatta (utile BD 5) e poi paretine fessurate fino al bosco sommitale (V+)

 

E per finire

Un capolavoro degli Anni Trenta, la prima grande via che ha fatto conoscere la valle nel mondo.

15 Canna dorgano schizzo ok

 

15 - PICCOLO DAIN 

CANNA D’ORGANO

B. Detassis e R. Costazza, 1938

350 metri, 11 tiri V+ e VI/R3

Esposizione Est

Scarica qui la relazione in formato PDF

Un alpinista famoso come Bruno Detassis (il “Re” del Brenta) che percorre la linea più evidente della valle non poteva passare inosservato nel mondo alpinistico tradizionalista degli anni trenta.

Un superbo itinerario che richiede esperienza e capacità su tiri di sesto in vera arrampicata libera, con pochissimi chiodi e proteggibilità non sempre ottimale; roccia buona, solo qualche breve tratto friabile e un po’ vegetato. Nella nostra ripetizione non abbiamo sentito il bisogno di aggiungere protezioni, ma numerosi cordini, una serie di friends e magari martello e chiodi possono essere consigliabili, soprattutto per chi è abituato a vie più “domestiche”.

Sicuramente una via dalla linea ideale, riservata ad appassionati della Valle e della sua storia.

Guardare dal basso questo diedro straordinario e poter dire “io l’ho fatto” rappresenta la maggior soddisfazione che un appassionato della valle e dei suoi valori storici può desiderare, tanto che qualcuno afferma che i frequentatori della Valle del Sarca si possono dividere in due categorie: quelli che l’hanno fatto e quelli che continuano a sognarlo.

summ Dain in the Eighties Sweet memories after Copia 21 maggio 1985, dopo la ripetizione della Canna d'OrganoAttacco

Dal paese di Sarche (parcheggio nei pressi della scuola) seguire il sentiero per la ferrata Pisetta giungendo con ripida salita nel bosco alla base della parete (scritta “per Ranzo” sulla roccia). Proseguire verso destra e ad un ometto abbandonare la traccia principale e seguire tracce e qualche bollo rosso a sinistra, raggiungendo la parete (qualche corda fissa) in prossimità dell’attacco del Pilastro Massud. Da lì traversare salendo verso sinistra lungamente (un tratto anche in discesa) su terreno delicato fino alla base dell’evidente diedrone (1 ora).

Discesa

Dal bosco alla sommità del pilastro seguire la traccia che scende verso Ovest e si collega al comodo sentiero principale che taglia in quota il bosco. Seguirlo verso sinistra (Est). Alcuni cavi e un tratto con gradini scavati nella roccia permettono di scendere il ripido tratto finale, conducendo alla base della parete nei pressi della scritta “per Ranzo”, dove ci si ricollega al sentiero d’attacco (1 ora).

Relazione

La linearità del tracciato rende superflua la relazione tiro per tiro: è una scoperta continua, da gustare passo dopo passo. Da osservare che la via si percorre normalmente in 11 tiri, anche se alcuni sono agevolmente abbinabili. Le soste sono generalmente comode e sicure, solo in qualche caso da rinforzare.

Castello di ArcoIl Castello di Arco

 20210211 111853

Lunedì, 15 Febbraio 2021 18:22

Sono due le imprese alpinistiche extraeuropee del 2019 gratificate con l’assegnazione ex-aequo del RICONOSCIMENTO PAOLO CONSIGLIO 2020.

Entrambe rispondono ai requisiti previsti dal docxRegolamento per la “Categoria A”, e cioè “Spedizioni di carattere esplorativo o di elevato contenuto tecnico, organizzate da piccoli gruppi di alpinisti a prevalente composizione giovanile.”

SPEDIZIONE BHAGIRATHI IV - Nuova via

Composta dai Ragni e Accademici Luca Schiera, Matteo Della Bordella e Matteo De Zaiacomo, alpinisti giovani, di diverso livello di esperienza ma tutti preparati tecnicamente e fortemente motivati. La spedizione, in puro stile alpino e senza spit, ha compiuto la prima salita della immensa Parete Ovest del Bhagirathi IV in giornata, per un itinerario di 800 metri con difficoltà estreme e continue.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Copy of Topo Cavalli Bardati 689x1024I

 

 

 

l racconto della salita al Bhagirathi IV scritto da Matteo Della Bordella

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/bhagirathi-iv-matteo-della-bordella-racconta-salita-inviolata-parete-ovest.html

 

 

SPEDIZIONE BLACK TOOTH - Prima salita

Composta dai giovani Simon Messner e Martin Sieberer. Il 26 luglio 2019 sono riusciti a salire l’inviolato Black Tooth, montagna di 6718 nel Baltoro, Karakorum, Pakistan. Una cima “minore” ma emblematica delle infinite possibilità che ancora si offrono per nuove salite di carattere esplorativo anche in zone da tempo frequentate. Itinerario di ampio respiro, con difficoltà non estreme ma affrontato in condizioni non ottimali e con approccio leggero. Rinunciando anche ai contatti esterni, come hanno scritto:” Vogliamo lasciare da parte i social network per connetterci al cento per cento con le montagne”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il racconto della prima salita al Black Tooth scritto da Simon Messner  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due prime ascensioni in quota e grande alpinismo di avventura per due team di alpinisti giovani, di formazione e appartenenza diverse ma accomunati da alte capacità e una progettualità esuberante.

Al di là del valore intrinseco delle realizzazioni si vuole premiare un tipo di approccio originale e leggero, con pochi mezzi, ma nel quale la determinazione e il coraggio di mettersi in gioco rappresentano i cardini sui quali si basa il successo.

Uno stimolo importante, quindi, per l’intero mondo alpinistico giovanile italiano, al quale mancano spesso visioni più ampie e progetti d’avanguardia.

 

Le due spedizioni sulla stampa

SPEDIZIONE BHAGIRATHI IV

 

https://www.montagna.tv/147635/bhagirathi-iv-che-avventura-della-bordella-non-volevamo-tornare-a-mani-vuote/

https://www.youtube.com/watch?v=2580X5woWaY

https://www.alpinismi.com/2019/11/21/bhagirathi-ragni-lecco/

SPEDIZIONE BLACK TOOTH

https://www.planetmountain.com/it/notizie/alpinismo/black-tooth-muztagh-tower-prima-salita-simon-messner-martin-sieberer.html

https://www.montagna.tv/144222/messner-e-sieberer-in-vetta-allinviolato-black-tooth/

http://www.mountainblog.it/video-post/video-simon-messner-martin-sieberer-black-tooth-6-718-m-salita/

Mercoledì, 10 Febbraio 2021 23:32

Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.

                                                   ASSEMBLEA GRUPPO OCCIDENTALE da remoto

                                                             SABATO 27 FEBBRAIO 2021 

Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.

In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.

Per eventuali ulteriori notizie o supporto scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Mercoledì, 10 Febbraio 2021 23:24

Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.

                                                   ASSEMBLEA GRUPPO CENTRALE da remoto

                                                             SABATO 20 FEBBRAIO 2021 

Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.

In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.

 

Per eventuali ulteriori notizie o supporto scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Mercoledì, 10 Febbraio 2021 22:39

Il Consiglio Generale, adottando i criteri di prudenza suggeriti anche dal CAI e valutata la straordinarietà della situazione nella quale appare prospettiva remota poter svolgere nei prossimi mesi riunioni in presenza, ha deliberato di effettuare le Assemblee dei Gruppi on line, utilizzando la piattaforma Google Meet.

                                                   ASSEMBLEA GRUPPO ORIENTALE da remoto

                                                       DOMENICA 14 FEBBRAIO 2021 ore 9,00

Ogni socio ha ricevuto dal proprio Gruppo la convocazione con l’ordine del giorno dell’Assemblea e le indicazioni per partecipare. Le modalità di partecipazione sono molto semplici e il collegamento può avvenire a mezzo pc o smartphone. La piattaforma utilizzata garantisce anche la possibilità di effettuare votazioni da pc a scrutinio segreto.

In questo particolare momento è quanto mai auspicabile che i soci tornino gradualmente a riallacciare rapporti e condividere esperienze e progetti, iniziando per ora da remoto. Non perdere i contatti tra i soci e con la nostra Associazione è fondamentale.

Ecco qui l'odg della riunione:  pdfOrdine_del_giorno_14_febbr_2021.pdf

Per eventuali ulteriori notizie o supporto scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Mercoledì, 03 Febbraio 2021 18:27

Ugo Manera condivide un fresco ricordo a trent'anni dalla scomparsa

Giovedì, 28 Gennaio 2021 21:42

Di   Giuliano Bressan - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI

  e  Massimo Polato - CAI Mirano - Centro Studi Materiali e Tecniche CAI

 

È comune tendenza credere di sapere cosa sia una corda, ma in realtà generalmente ben pochi si rendono conto di quanto complesso e vario sia l’argomento.

Un po’ di storia

Natural fiber manila rope, isolated on white backgroundFig. 1 - Corda in canapaDai tempi dei pionieri fino ai primi anni Sessanta le corde che venivano utilizzate in alpinismo erano costruite con filamenti discontinui di canapa, opportunamente ritorti, intrecciati e ancora ritorti fra loro per conferirne tenuta e deformabilità. Pur utilizzando canapa di ottima qualità, come ad esempio la “Manila”, per migliorarne in particolare la maneggevolezza, le corde che si riuscivano a realizzare erano sicuramente poco affidabili sia in termini di sicurezza, per la scarsa resistenza alla rottura, sia per la funzionalità, soprattutto per la tendenza a irrigidirsi in caso di pioggia o freddo intenso. Queste corde, inoltre, erano praticamente prive di qualsiasi capacità di allungarsi ed erano molto soggette a fenomeni di degrado dovuti all’usura derivante dagli sfregamenti sulla roccia.

Se pensiamo agli itinerari su roccia e ghiaccio realizzati in quel periodo, non si può che ammirare il coraggio di chi affidava la propria vita a questa tipologia di corde (Fig. 1).

La maggior parte dei problemi e dei limiti esposti è stata risolta con l’introduzione delle fibre artificiali e in particolare la poliammide, come Perlon® e Nylon® [1].

 

Fig. 2 Corda in PerlonFig. 2 - Corda in PerlonQueste prime “corde moderne” (Fig. 2) furono un netto passo in avanti sotto il profilo della sicurezza e delle prestazioni. Se bene l’elasticità fosse ancora una chimera, i problemi legati all’usura e all’assorbimento di acqua della canapa erano di gran lunga ridimensionati.

Da queste corde si sono via via sviluppate conoscenze e metodologie di processi di produzione che arrivano fino ai giorni nostri.

Le corde moderne offrono, infatti, una grande affidabilità grazie alle notevoli caratteristiche di resistenza alla rottura, di deformabilità e di funzionalità. Ampi margini di miglioramento sono tuttavia ancora possibili, in particolare per quanto riguarda la resistenza alla rottura, l’usura per sfregamento e micro stress, l’effetto di acqua e raggi UV.

Le corde attuali sono costituite da sottilissimi mono filamenti di poliammide (prevalentemente nylon 6 o nylon 6,6), di spessore di circa 30 micron (30 millesimi di millimetro, la metà di un normale capello) e trattati termicamente per esaltare il più possibile le doti di elasticità di questi materiali; una corda con diametro 10-11 mm ne può contenere dai 60 ai 70 mila (Fig. 3). 

          Fig. 3 - Corde moderne

Fig. 4 Calza e animaFig. 4 - Calza e anima 

La geometria costruttiva è del tutto diversa dalle vecchie funi di canapa o dalle prime corde in poliammide perché in questo caso la corda è un vero e proprio composito costituito da due parti ben distinte (Fig. 4).

- L’ “Anima”, la parte interna, formata da un insieme più o meno grosso di fili ritorti e/o intrecciati fra loro, i “trefoli” di numero variabile secondo i produttori.

- La “Camicia (calza o guaina)”, la parte esterna, composta di un tessuto a costruzione tubolare ottenuto per intreccio di un insieme di fili detti “stoppini” in blanda torsione fra loro.

Attualmente, tra i vari trattamenti e le tecniche disponibili per migliorare le prestazioni delle corde da arrampicata, quella che influisce e contribuisce maggiormente ad aumentare la sicurezza è la tecnologia “Unicore”. In parole povere le fibre di nylon dell’anima della corda costituiscono un “unico corpo” in grado di conferire tenuta anche in caso di taglio o lacerazione della camicia.

Corde: categorie e normative

Le corde si dividono generalmente in due tipologie:

  • Corde semi statiche
  • Corde dinamiche

Si definiscono “semi statiche” quelle corde che presentano un basso coefficiente di allungamento. In ambito alpinistico questo tipo di funi trova applicazione solo per la posa di corde fisse (ad esempio nelle spedizioni in alta quota), poiché nel caso di una caduta, la mancanza di allungamento elastico renderebbe l'arresto dell'arrampicatore molto brusco, con notevole rischio di lesioni gravi, e la possibile fuoriuscita o rottura degli ancoraggi.

Le corde semi statiche sono normalmente impiegate in speleologia, canyoning, lavoro e si dividono a loro volta in:

  • Tipo A: Corde da utilizzare nel soccorso o come linea di sicurezza nei lavori in altezza. In quest'ultimo caso, sono utilizzate per l'accesso al posto di lavoro, in combinazione con altre attrezzature, o per effettuare lavori in tensione o in sospensione sulla corda.
  • Tipo B: Corde di diametro e resistenza inferiore alle corde di tipo A e che richiedono maggiori precauzioni e attenzione durante l'uso.

In arrampicata e alpinismo sono invece utilizzate corde "dinamiche", in grado cioè di arrestare la caduta libera di una persona, impegnata in un’azione di alpinismo o in una scalata, con una forza di arresto limitata.

Fig. 5 Tipi di corde dinamicheFig. 5 - Tipi di corde dinamicheLe corde dinamiche (Fig. 5) si suddividono in:

  • Corda singola (semplice): Viene utilizzata da sola, ed è ideale nei casi in cui, la discesa non si effettua in corda doppia; è soprattutto la corda dell’arrampicata sportiva.
  • Mezza corda: È utilizzata in coppia; il capo cordata deve legarsi ai due capi ma al contrario delle corde gemelle, possono esserci due secondi, legati ciascuno su un capo delle due corde. Le mezze corde sono ideali per le discese a corda doppia e da preferire con punti di ancoraggio aleatori (es.: roccia friabile – ghiaccio inconsistente), perché si può moschettonare solo un capo alla volta per limitare la tensione; inoltre, offre una migliore protezione in caso di caduta di sassi o su uno spigolo.
  • Corda gemellare: va utilizzata in coppia come fosse una corda singola. Ogni arrampicatore si lega sui due capi delle corde che vanno sempre moschettonate insieme. Il suo vantaggio rispetto alla corda singola è la possibilità di fare discese in doppia.

Nel mercato è presente anche una corda detta “da escursionismo” ma non si parla di un quarto tipo di corda. Generalmente si tratta di una singola corda gemella; in Germania si richiede invece di utilizzare almeno un capo di mezza corda.

 

 

 

Le corde, per essere poste in commercio, devono rispondere a delle ben precise normative:

  • EN 1891: la norma si applica alle corde con guaina a basso coefficiente di allungamento (semi statiche), di diametro compreso fra 8,5 e 16 mm, utilizzate dalle persone per gli accessi mediante corda, compresi tutti i tipi di posizionamento sul lavoro e di trattenuta, per il salvataggio e in speleologia.
  • EN 892 - UIAA 101: la norma specifica i requisiti di sicurezza e i metodi di prova per corde dinamiche (singola, mezza e corde gemellari) di struttura con guaina per l’utilizzo in alpinismo compresa l’arrampicata.


- Corda singola: in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 80 kg limitando la “forza di arresto” (FAD) a 12 kN (1200 daN) [2]. La corda viene provata singolarmente al Dodero [3] (Fig. 6 e 7) e deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute. In particolare, riguardo alle corde dinamiche la norma prevede:

- Mezza corda: uti­lizzata normalmente in coppia, può trovarsi a sostenere “in singolo” una caduta, nel caso in cui le due corde siano inserite alternativa­mente nei rinvii. Per questo motivo la corda è provata singolarmente al Dodero e deve essere in grado di arrestare la caduta libera di una massa di 55 kg limitando la FAD a 8 kN (800 daN). La corda deve resistere senza rompersi ad almeno 5 cadute.

- Corda gemellare: viene prova­te al Dodero in coppia con una massa di 80 kg e la FAD non deve superare 12 kN (1200 daN); le corde devono resistere senza rompersi ad almeno 12 cadute.

Fig. 6 DoderoFig. 6 - Dodero

 

Fig. 7 Il sistema DoderoFig. 7 - Il sistema Dodero

La norma prende in con­siderazione la FAD alla prima caduta; le successive cadute generano forze più elevate a causa dell’ir­rigidimento provocato nella corda dalle cadute precedenti, ma non sono soggette a limiti. Il progresso nei materiali di base e delle modalità di costruzione, oltre che dei controlli di qualità, permettono oggi di realizzare corde che superano ampiamente i requisiti posti dalla norma. Una corda singola ad esempio, può reggere anche ben oltre le 10 cadute con valori di FAD più bassi, 7÷9 kN (700÷900 daN) e con peso ridotto; il peso, in questi ultimi anni, va assumendo un’impor­tanza di tipo commerciale molto rilevante cui non sempre corrispondono benefici apprezza­bili se non in particolari situazioni.

La normativa EN 892 - UIAA 101 prevede, oltre a quanto esposto, che la corda superi altri test concernenti il massimo allungamento statico e dinamico (al primo picco di forza al Dodero) e allo scorrimento della camicia.

Si fa infine notare che nel mercato sono presenti anche corde omologate come singole, mezze e gemellari; questo significa che la corda testata singolarmente e in coppia risponde ai parametri richiesti dalla normativa.

 

Quesiti e curiosità

Le domande più frequenti riguardano i valori che si riferiscono alla “forza di arresto” (12 e 8 kN), al peso delle masse (80 e 55 kg), utilizzate nei test al Dodero e sul perché le prove vengano fatte a corda bloccata se poi, nella realtà, si impiega un freno.

Il valore di 12 kN è il risultato di studi militari sull’apertura dei paracadute: un corpo umano allenato è in grado di sopportare una decelerazione massima di circa 15 G, cioè 12 kN per una massa di 80 kg.

Il valore di 8 kN deriva invece da un errore al momento della redazione della norma. Infatti, secondo logica e per limitare a 12 kN la forza di arresto di due capi di mezza corda utilizzati contemporaneamente, occorrerebbe che con 55 kg su un capo, la forza di arresto sia limitata a 7 kN. Una mezza corda a 8 kN darebbe una forza di arresto di 13,50 kN testata come una corda gemella, cioè ben oltre la resistenza del corpo umano.

Riguardo al peso delle masse, sul perché degli 80 kg la risposta è semplice: si considera per convenzione il peso medio di un uomo con il suo materiale.

Diversa è invece la questione sul perché e quali sono i concetti alla base del test sulle mezze corde, con una massa di 55 kg; la maggior parte degli scalatori non rientra, infatti, certamente in questa classe di peso, considerando anche la loro attrezzatura. Di fatto, la capacità di una mezza corda - provata singolar­mente al Dodero con una massa di 55 kg - di sopportare in queste condizioni 5 cadute, fu ritenuta indicativa della capacità di una singola mezza corda di sostenere almeno una caduta di 80 kg; in questo caso la forza di arresto della singola mezza corda è superiore del 25% circa rispetto alla prova con 55 kg.

Le mezze corde, come già esposto, sono da preferire se si è in presenza di ancoraggi aleatori, come ad esempio roccia friabile o ghiaccio inconsistente, perché permettono il rinvio sui moschettoni di un solo capo alla volta, limitando nell’eventualità di una di caduta la forza di arresto. Se si rinviano entrambe le mezze corde nei moschettoni, come normalmente si fa in presenza di ancoraggi ritenuti sicuri, bisogna considerare un aumento delle forze di arresto di circa il 20-25%.

Spieghiamo, infine, il motivo per cui la FAD viene determinata in condizioni di corda bloccata. Un primo motivo risiede sul fatto che si ha la necessità di standardizzare la prova affinché i test eseguiti nei vari laboratori del mondo si trovino a operare nelle medesime condizioni; un’altra motivazione risiede nell’esigenza di ricercare il più elevato grado di ripetibilità possibile nei vari test, in modo da avere un campione rappresentativo dal punto di vista statistico. Queste condizioni si possono verificare solo eliminando quante più variabili non controllabili possibili e, da questo punto di vista, si capisce subito che eseguendo delle prove a corda frenata non si possono assolvere questi requisiti. Ogni persona, infatti, ha un suo modo di frenare la caduta: c’è chi è più “morbido” e chi più “rigido” e questo renderebbe non confrontabili le varie prove.

Sul test al Dodero tutto è standardizzato. Dal modo con cui si stringe il nodo sulla massa alle caratteristiche geometriche e di finitura superficiale (rugosità), di tutte le parti in metallo su cui scorre la corda.

Certo, una prova così è molto più severa di quel che avviene nella realtà, ma vale il principio del ragionare “a favore di sicurezza”. In sostanza, ci si mette nella peggiore condizione possibile che può accadere, perché se la corda non si rompe in questa condizione, a maggior ragione resisterà quando verrà sollecitata in presenza del freno, dove quasi tutta l’energia di caduta non è più dissipata dall’elasticità della corda, ma viene in gran parte trasformata in calore, generato per attrito, nel suo scorrimento sul freno.

Sul sito del Centro Studi sono disponibili, per chi desideri approfondire i molteplici aspetti (tra cui la durata delle corde), diversi articoli:

Articoli sulle corde

Articoli sulle tecniche di assicurazione

pdfUsura delle corde in arrampicata e in laboratorio

 Conclusioni, suggerimenti e consigli

La scelta di una corda deve essere sempre orientata su criteri di sicurezza. Particolare attenzione va quindi posta nel controllo dei dati tecnici dichiarati dai produttori; ad esempio per una corda singola, oltre alla forza di arresto - che dovrà essere ben inferiore a 12 kN - i parametri fondamentali sono il peso della corda che dovrà essere preferibilmente sui 65-75 grammi/metro, e soprattutto la sua resistenza dinamica espressa come numero di cadute sopportate al Dodero che dovrà essere di almeno 8-10 cadute.

Una corda scelta in conformità a queste indicazioni offre certamente ottime garanzie di sicurezza anche per un uso prolungato. Altra ottima soluzione è rappresentata, senza dubbio, dall'impiego in arrampicata di una coppia di mezze corde o di corde gemellari. Si ha il vantaggio, infatti, oltre all'elevatissima resistenza dinamica, di poter sempre contare - in caso di rottura di una delle due corde (a es. nell'eventualità di una caduta su spigolo) - sull'intervento dell'altra.  

          Fig. 8 - Corda nuova Le corde da arrampicata sono fatte ovviamente per essere utilizzate, nondimeno ogni loro impiego lascia il segno. Molto importante, ai fini della sicurezza, è quindi eseguire sistematicamente sulla corda, prima e dopo l'uso e per tutta la sua lunghezza, un minuzioso controllo, mediante esame visivo e tattile. Qualora la corda abbia sostenuto una caduta importante, si riscontrino danni dovuti a cause meccaniche (a es. caduta di sassi), la camicia si presenti seriamente danneggiata per abrasione (sfregamento sulla roccia o scorrimento in un freno) o denoti segni di notevole usura (Fig. 8 e 9), è necessario eliminarla.

          Fig. 9 - Corda usurata

 

Particolare attenzione va posta anche alla corretta conservazione della corda. Si raccomanda di riporla, dopo uso e verifica, nell'apposita sacca, avvolta a matassa, in ambiente buio, fresco, pulito e asciutto; va inoltre evitato accuratamente di lasciare la corda nel bagagliaio della propria auto per tempi prolungati perché d'estate la temperatura interna può superare i 60-70 °C e anche per il possibile contatto con sostanze chimiche dannose (acido delle batterie, solventi, ecc.).

Riguardo alla pratica di segnare o colorare la corda a metà, si devono usare esclusivamente degli speciali inchiostri, non aggressivi, impermeabili e resistenti all’abrasione; la corda non va mai segnata o colorata con articoli non specifici, perché gli agenti non naturali contenuti in alcuni inchiostri sono potenzialmente in grado di provocare effetti deleteri.

Una buona regola è tenere sempre pulita la propria corda per farla durare più a lungo, mantenendone le caratteristiche di scorrevolezza. Per rimuovere l’inevitabile sporcizia si possono utilizzare delle spazzole “Rope Brush”, specificamente create per pulire le corde e che si adattano facilmente ai vari diametri.

La corda è nella sostanza un prodotto tessile ed è quindi possibile lavarla; allo scopo bisogna utilizzare un detersivo neutro o gli appositi detergenti naturali. Il modo migliore per lavare la corda è a mano, in acqua fredda o appena tiepida. E’ possibile il lavaggio anche in lavatrice con il programma per tessuti delicati (30 °C); importante è non utilizzare la centrifuga e non asciugare mai la corda nell'asciugatrice. Il metodo più opportuno per asciugare una corda è stenderla a terra all’ombra e a temperatura ambiente (va evitata la luce solare diretta). 

Infine un ultimo consiglio: i danni arrecati alla corda in seguito all'impiego in moulinette e/o ai piccoli voli tipici dell'arrampicata sportiva, di solito sopportabili in falesia, potrebbero invece risultare fatali al primo volo serio in ambiente. Massima attenzione quindi a non usare mai la stessa corda sia per l'arrampicata sportiva, sia per la pratica alpinistica in montagna.

 

Note

[1] Anche se oggi le poliammidi vengono universalmente identificate tramite il nome di “nylon” originariamente vennero scoperte da due aziende diverse. Il primo a sintetizzare le poliammidi fu Wallace Carothers che ottenne la poliesametilenadipamide (o Nylon 6.6) in un laboratorio della DuPont di Wilmington (USA) nel 1935. Il processo di sintesi del Nylon 6,6 (realizzato a partire dall'acido adipico e da esametilendiammina) fu brevettato nel 1937 e commercializzato nel 1938. Sempre in quell’anno, in Europa, Paul Schlack, riuscì a produrre nei laboratori della IG Farben, (Germania), il Nylon 6, partendo dal caprolattame; fu brevettato nel 1941 e commercializzato sotto il nome di “Perlon”. Oltre al nylon 6 e al nylon 6,6 (la cifra che accompagna la parola si riferisce al numero di atomi di carbonio esistenti nella molecola), i nylon più diffusi industrialmente sono il nylon 11 e il nylon 12. Il nylon 6 e il nylon 6,6 presentano notevoli proprietà di resistenza alla trazione abbinate a un’elevata elasticità per cui hanno trovato larghissimo impiego nel settore tessile.

[2] Il Newton - “N” - è un’unità di misura della forza nel Sistema Internazionale; un N è la forza che applicata a una massa di 1 kg le imprime l’accelerazione di 1 m/sec².

Un deca Newton - “daN” (10 Newton) viene spesso usato perché equivale a circa 1 kg peso.

Un kilo Newton “kN” (1000 Newton) equivale quindi a circa 100 kg peso.

[3] Il Dodero (dal nome del professore francese che lo progettò negli anni Cinquanta) è l'apparecchiatura utilizzata per valutare certe prestazioni della corda e determinarne, in base al numero delle cadute sostenute in condizioni controllate di temperatura (20°C) e di umidità relativa (65%), la “resistenza dinamica”. E’ costituito da una struttura che permette cadute senza attrito di una massa metallica lungo due guide parallele. Un capo dello spezzone di corda da testare è legato alla massa (80 kg per la corda singola o per le gemel­lari - 55 kg per la singola mezza corda). L’altro capo della corda passa attraverso una piastra con foro circolare dal bordo arrotondato (raggio di curvatura 5 mm) detto anello fisso o orifizio, che simula un moschettone e poi bloccato a un cilindro (sistema Poller). La rottura della corda avviene di solito sull’orifizio. La massa cade a intervalli regolari di 5 minuti da un’altezza di m 2,30. Per ragioni costruttive e di geometria, quest’apparecchiatura non consente un fattore di caduta (rapporto tra l'altezza della caduta e la lunghezza di corda) pari a 2: esso risulta di poco inferiore (circa 1,77) se si tiene correttamente conto dei reali assorbimenti di energia nel ramo a monte dell’orifizio, nel Poller e nei nodi. Convenzionalmente ci si riferisce comunque a questi risultati per la qualifica delle corde.

Mercoledì, 06 Gennaio 2021 18:30

UNA SALITA INTEGRALE

Racconto per rivivere ricordi indimenticabili o per sognare un'avventura straordinaria per la prossima estate

Luca Enrico (C.A.A.I. Gruppo Occidentale) ci racconta la salita della Cresta integrale di Peuterey alla vetta del Monte Bianco. 

Salita effettuata nell'agosto 2013 in cordata con Matteo Enrico e Luca Brunati

"L'ASCENSIONE AL MONTE BIANCO PER LA CRESTA DEL PEUTEREY È UNO DEGLI ITINERARI PIÙ GRANDIOSI DELLE ALPI, IL SOGNO DI MOLTI ALPINISTI."
(ANDRÉ ROCH,  GRANDI IMPRESE SUL MONTE BIANCO)

Piove, una pioggia fine e insistente, quasi già autunnale. La nebbia si sfilaccia sulle punte dei pini e su quelle delle montagne. Con la testa appoggiata al finestrino dell’autobus vedo correre vie i paesi, l’asfalto è lucido, quasi mi assopisco e vedo allora scorrere nella mia testa questi giorni incredibili appena vissuti, trascorsi. Mi sembra un po’ strano essere qui, seduto su questo sedile, lo zaino accanto a me emana l’odore della montagna. L’autobus ci scarica a Chamonix, dobbiamo attendere la coincidenza per l’Italia, ci infiliamo nel primo locale che ci sembra dare qualche possibilità di ristoro. Siamo in cinque. Oltre a me e mio fratello Matteo c’è l’amico di sempre Luca Brunati e poi i due ragazzi con cui abbiamo condiviso per caso tutta la lunga salita e la discesa. La cucina è già chiusa, chiediamo delle patatine con formaggio e ci portano, invece di uno sperato e bel pezzo di toma, un misero piatto di patatine fritte con sopra del formaggio fuso.

Chissà i due simpatici e gentili rumeni, che non hanno esitato a farci passare, dove saranno. Ci auguriamo che abbiano desistito come molti altri, trovarsi lassù ora non glielo auguriamo proprio, il tempo è terribile, una fredda bufera ha preso il posto dei giorni assolati precedenti. Già quando siamo usciti noi, oltre la cornice sommitale, un vento teso e polare ci ha investiti, foriero della perturbazione.

                               Una grande scala verso la vetta del Monte Bianco Foto Silvia Mazzani

 

Foto integrale per topo 2L'Integrale di Peuterey Foto Alberto Rampini

Quattro giorni prima. Siamo in Val Veny. E’ sempre bella questa valle e poi è l’atmosfera che si respira arrivando qui, quella che precede le salite, il rito dello zaino, l’ultima verifica all’attrezzatura. A sto giro dobbiamo proprio stare attenti a non aver dimenticato nulla. Ricontrolliamo anche le scorte di cibo, non sono molte eppure come sempre ci sembrano esagerate perché occupano prezioso spazio nello zaino. E’ tutto a posto. Chiudo l’auto e l’avventura inizia. La salita al Bivacco Borelli 2.325 m non è molto lunga ed è pure divertente grazie alla ferrata, ma bisogna stare attenti. Come un deja vu ritorno indietro di 12 anni. Eravamo qui per la Sud della Noire, solo quella ma all’epoca fu il degno coronamento di una grande stagione. Il nostro amico Marco risaliva slegato e senza casco quelle ripide scalette, un sasso lo colpì e cadde sulla terrazza sottostante, per fortuna senza gravi conseguenze. Oggi invece va tutto bene. Usciti dalla ferrata superiamo altri alpinisti, allora inizia il gioco di indovinarne la destinazione. A differenza di 12 anni fa il piccolo rifugio è pieno, è facile intuire che tutti andranno sulla Sud della Noire. Ma quanti proseguiranno per l’Integrale di Peuterey fino in vetta al Bianco? Ci sono i due ragazzi italiani che superiamo proprio all’uscita della ferrata. Poi c’è la guida svizzera con il cliente, trasuda nervosismo e guarda di sottecchi i “concorrenti” e poi ci sono i due tedeschi, uno dei due è un teutonico marcantonio con i capelli lunghi e l’abbigliamento un po’ demodè, però ispira simpatia, sembra calmo e rilassato. Poco alla volta si delineano le cordate dirette all’Integrale, sono in tutto sei, compresa la nostra.

La serata scorre via piacevolmente e presto arriva la sveglia. Io vorrei sempre partire alle ore più antelucane ma questa volta mi lascio convincere a posticipare. Siamo rimasti solo più noi tre a fare colazione. Sorseggiamo il tè con ostentata calma sbirciando dalla finestra la lunga fila di frontali già alte sulla morena. Il sottile dubbio di essercela presa con troppa calma mi sorge ma mi ricredo appena vedo accalcarsi tutti quei lumicini alla base del primo tiro della Sud. Sembrano lucciole impazzite, aggrovigliatesi in maniera inestricabile. Quando sbuchiamo dall’ultima morena gli ultimi sono ancora lì affaccendati a salire il primo tiro. Comincia a far chiaro. Attacchiamo anche noi, sono passati tanti anni ma ricordiamo vagamente i passaggi.

          Verso il Pilier d'Angle Foto Luca Enrico Adottiamo fin da subito la nostra tecnica di progressione “veloce”, assolutamente deprecabile dal punto di vista della sicurezza ma molto efficace. Richiede solo una cieca fiducia nei soci, per il resto permette di accorciare i tempi di permanenza alle soste: tiri lunghi da 80m, avanti fin che il materiale c’è. E nei pezzi più facili i secondi partono con le corde in mano. Non sembra vero eppure piano piano cominciamo a risalire il serpentone umano. Come sempre c’è chi ti lascia passare, come i due già citati rumeni, altri borbottano un po’, ma fa poi lo stesso, a sto giro decidiamo di derogare un po’ dal fair play, stasera dobbiamo essere dall’altra parte della Noire. Superiamo anche i due italiani e il crucco capelluto che sale costante ma con estrema decisione. Sono in testa io e sbuco su una delle tante torri della Sud. Alla mia sinistra lo svizzerotto sta recuperando il cliente. Si gira verso di me indispettito fulminandomi con uno sguardo degno di “Mezzogiorno di fuoco”. Il duello è ormai inevitabile. Lui riparte e sosta in mezzo al muro seguente, io recupero gli altri due e parto per il mio tiro da 80. Passo dietro al cliente che impreca in un misto tedesco-francese contro les italiens. Poi arrivo dalla guida che questa volta sbotta di brutto. Non me lo faccio ripetere due volte e gli passo sopra mandandolo a quel paese in uno stentato francese. Il successivo fare conciliante non fa sbollire le ire del povero elvetico che ancora ci impreca dietro, ma ormai siamo oltre e poco per volta lo distanziamo.

          La vetta della Noire Foto Luca Enrico

 

In questi viaggi può anche capitare di fare piacevoli incontri. A un certo punto qualcuno chiama mio fratello. Non si capisce nemmeno da dove arrivi quella voce, eppure chiamano proprio “Teo, Teo”. Tralasciando ipotesi fantasiose del tipo che sia la montagna stessa a chiamarci cerchiamo di capire chi sia il proprietario di quella voce. Lo scopriamo presto, troviamo Diego, un simpatico ragazzo di Val della Torre comodamente seduto su una cengia mentre assicura il socio. Sta facendo la Sud, stanotte ha bivaccato e per quello non lo abbiamo visto al Borelli. Se ne sta lì placido e sorridente con una penna di rapace infilata sul casco. Ha perso la relazione della discesa. Noi ne abbiamo una. Se tutto andrà come deve andare non ci servirà e gli promettiamo di lasciargliela sulla Madonnina di vetta. Lo salutiamo e proseguiamo, ormai le difficoltà stanno scemando e la vetta è sempre più vicina.

La discesa in doppia dalla Noire è forse uno dei tratti più temuti di questa lunga cavalcata. Ne saremo diretti testimoni il giorno seguente quando, udite le grida di aiuto di una cordata di francesi con le corde incastrate, chiameremo per loro il Soccorso. Comunque fatta ben attenzione a prendere le soste giuste senza fare calate troppo lunghe arriviamo verso il fondo dove la nostra contentezza per essere i primi viene presto tarpata da qualche bella pietra che ci piove addosso, anche se in verità non per negligenza, dagli amici tedeschi e italiani, le uniche due cordate superstiti. Di altri non c’è traccia. Attendiamo le due cordate alla fine della discesa e poi noi decidiamo di risalire al buio fin sotto la Punta Casati, dove una bella piazzola sembra attenderci per il bivacco. In verità non è proprio il più comodo dei giacigli con tutte quelle pietre aguzze anche perché non abbiamo né materassino, né sacco a pelo ma solo il sacco da bivacco. Scelta ovviamente dettata dalla leggerezza e poi…”mica abbiamo mai bivaccato con il sacco a pelo e il materassino!”. Se il letto non è dei più comodi la cena lascia pure alquanto a desiderare: qualche fetta di pallido tacchino sottovuoto accompagnata da cubetti di grana, energetici quanto si vuole ma pure alquanto stopposi. Comunque c’è la Luna, le creste e le torri che ci stanno alle spalle sembrano un castello fatato, è tutto molto bello e domani ci attende il secondo giorno di viaggio.

Il freddo che precede il sorgere del sole ci fa rimpiangere il sacco a pelo ma più che altro con l’avvento della luce la magia della sera prima si spezza un po’. In realtà constatiamo solo ciò che non volevamo vedere, e non certo a causa del buio. Queste dame inglesi sono davvero un orrido ammasso di sfasciumi. Forse quando Diemberger girò il famoso film c’era molta più neve, i cambiamenti climatici erano ancora a venire e per raggiungere il piccolo bivacco Craveri si poteva scegliere tre opzioni. Con le dita intirizzite rigiriamo tra le mani la relazione e poi scegliamo la terza. Perché è quella più elegante ed estetica e ci fa scalare i vari pinnacoli, altrimenti che integrale è! In verità dietro alla nostra etica e al nostro gusto estetico si cela la repulsione anche solo a immaginarci impegnati su quegli orrendi sfasciumi in bilico sull’abisso.

          Il Bivacco Craveri visto dalle Dames Anglaises Foto Luca Enrico

 

          Matteo Enrico al Bivacco Craveri Foto Luca Enrico

                               Nel circoletto Il Bivacco Craveri Foto Archivio Carlo Barbolini

 

18 il Bivacco Craveri come si presenta oggiIl Bivacco Craveri dopo i lavori dell'estate 2020 Foto Beppe Villa

          L'interno del minuscolo bivacco Foto Luca Enrico

Poco prima del bivacco un provvidenziale nevaio ci permette di fare acqua. Nel frattempo arrivano le altre due cordate, i tedeschi proseguono spediti, i due italiani li troveremo a banchettare al Craveri. Da qui saliremo insieme. C’è da dire che l’accogliente ricovero esercita il potere di una sirena ammaliatrice. Sembra dirci: “fermatevi, fermatevi qui a riposare”. Per poco non ci caschiamo ma sprecare più di mezza giornata di bel tempo sarebbe assai imprudente. Anche se a malincuore riprendiamo tutti e cinque la salita.

L’estetica dell’arrampicata è certamente un’altra cosa però l’ambiente è grandioso. Noi conosciamo questi luoghi e ci dirigiamo verso il retro del Pic Gugliermina. Oggi è presto ma più su inizia la neve e quindi decidiamo di fermarci. Su una buona terrazza ci stiamo tutti e cinque. Luca andando a cercare acqua trova tra quelle pietre una vecchia e consunta coperta, di quelle in lana grigia, e prontamente la porta, come gli uccellini fanno con i ramoscelli, nel nostro piccolo nido. Per tenere al caldo il sedere niente di meglio. Che poi proprio di caldo non si può tanto parlare…Gli altri due si stupiscono nel constatare che non abbiamo né sacco a pelo né materassino. Ah ma noi ne possiamo fare a meno…anche se non lo diciamo però li invidiamo un po’.

Terzo giorno di ascensione. Adesso comincia l’ultima parte. Certo che il Bianco è ancora ben lontano, eppure molto meno di quanto lo vedessimo dalla Sud della Noire. Alla Noire si sostituisce la Blanche con la sua affilata e vertiginosa cresta. Ci sporgiamo sulla Nord pensando a chi l’ha scesa in sci, l’ambiente è grandioso, forse nulla è paragonabile su tutte le nostre Alpi. Poi su al Pilier d’Angle dove la nebbia rende l’ambiente ovattato. Dobbiamo cercare di sbrigarci. Finalmente l’ultima cresta di neve, che poi è un tratto ancora eterno, che ci porterà dritti al Monte Bianco di Courmayeur. Adesso una pesta dopo l’altra e il gioco è fatto. Peccato che le condizioni non siano così buone, due dita di neve coprono quel ghiaccio poroso, che distrugge oltre ai polpacci il cervello. Già non è il massimo per proteggersi, se poi si aggiunge che abbiamo in tutto tre viti e un solo attrezzo a testa è tutto detto. Sto di nuovo salendo io, tutto bello per carità ma non è che mi stia proprio divertendo un mondo. A un certo punto nel canale a destra si stacca un monolite di granito grande come un camion e si mette a rimbalzare sul pendio di neve. E’ impressionante. Luca riesce pure a perdere il piumino, una distrazione che quassù potrebbe costare cara. Il tempo non è più così bello, dobbiamo fare in fretta.

          Creste vertiginose sulla Blanche Foto Luca Enrico

 

          Salendo verso il Pic Gugliermina Foto Luca Enrico

          Il secondo bivacco Foto Luca Enrico

 

          Le creste finali Foto Luca Enrico

          Il lungo viaggio sta per terminare Foto Matteo Enrico

 

 

 

 

Questa cresta non finisce mai! A un certo punto però ecco la cornice sommitale. E’ rosa, illuminata ancora dall’ultimo Sole che dietro di lei sta tramontando. La supero ed esco. Alzo la piccozza al cielo. Il viaggio è concluso. Fa freddissimo, un vento gelido ci sferza portandoci via il calore accumulato nella salita. Saliamo in vetta al Bianco e poi giù alla Vallot. Ci fermiamo un attimo ma è sempre il solito immondezzaio e allora divalliamo al Gouter.

Qualcuno sta già salendo per anticipare il maltempo, ci sono i soliti giapponesi trainati da guide che non fanno nemmeno lo sforzo di fingere di divertirsi. Siamo sulla traccia e ci sleghiamo. Ognun per sé. A un certo punto mi siedo nella neve, mi sento svuotato di energie, ma ormai basta scendere.  

 

           L. Enrico nel tratto finale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 "La cresta integrale di Peutérey rimarrà sempre una salita che difficilmente verrà ripetuta, infatti le probabilità di compiere l'intera scalata sono molto minori rispetto alla parete Nord dell'Eiger o allo sperone della Punta Walker, perchè le dimensioni della cresta superano quelle di entrambe le pareti, sia in altezza che in estensione: 8Km di arrampicata, discese a corda doppia, salite lungo roccia, ghiaccio e misto, contro i 2Km circa delle grandi pareti nord. Già la prima tappa, la cresta sud dell'Aguille Noire è di 2Km di scalata; poi la seconda frazione, 500mt di discesa a corda doppia lungo il verticale spigolo Nord dell'Aguille Noire, una grande incognita, soprattutto con il maltempo! L'ultimo tratto, infine, la traversata dell'Aguille Blanche, la discesa alla sella del Col de Peutérey e la salita di 900mt per raggiungere la vetta del Monte Bianco risulta tecnicamente più facile, ma certo non meno grandiosa ed impressionante".
Kurt Diemberger, rivista della montagna, n.°12, aprile 1973

Monte Bianco

Cresta Integrale di Peuterey

Ascensione effettuata nei giorni 20-24/08/2013 da Luca Brunati, Luca e Matteo Enrico

Relazione tecnica:

Dislivello: 4500m

Quota partenza: 1600m

Quota vetta/quota: 4810m

Esposizione: tutte

Grado: TD+

Località di partenza: Casolari di Peuterey 

Punti d'appoggio: Rifugio Borelli - Bivacco Craveri

1440px Peuterey ridge with labels 1024x768Da CAMP TO CAMP che si ringrazia

Note tecniche

Ascensione lunga e impegnativa, anche se mai tecnicamente difficile, rappresenta un vero viaggio alpinistico, con alcuni reali pericoli oggettivi. Questi sono rappresentati dalla discesa in doppia sul versante nord (se si incastrano, molto difficile se non impossibile risalire in molti tratti), pericolo di caduta sassi sulle doppie (soprattutto con altre cordate presenti), nell’attraversamento delle Dames Anglaises e sul Grand Pilier d’Angle, attraversamento di affilate creste nevose, possibile presenza di ghiaccio nel tratto finale.
Arrivare in giornata al Craveri è difficile, prevedere dunque un paio di bivacchi (partendo dal Borelli).
L’acqua si trova molto difficilmente e dipende molto dalla stagione e quindi dalla presenza di neve. In genere si trova alla Breche Centrale, difficilmente al Craveri (senza coperte e materassi), e poi verso la calotta della Blanche. Tenere in considerazione l’aspetto acqua.
Fondamentale il tempo ultra stabile per tutti i giorni dell’ascensione.
Le scappatoie, scesi dalla Noire, sono poche, difficili, e pericolose.

Nostre note:

Primo giorno: salita al Borelli.

Secondo giorno: cresta Sud della Noire, doppie sul versante nord e quindi risalita fino sotto la Punta Casati. Terzo giorno: attraversamento delle Dames Anglaises, risalita fin sotto il Gugliermina.

Quarto giorno: uscita sul Bianco.

Nostro materiale: 5 friends, 8 rinvii, 3 viti da ghiaccio (ma era meglio averne qualcuna in più), 1 piccozza a testa, ramponi, cordini, fornelletto e bombola nuova, frontale, scarpette, acqua (2 litri). Per coprirsi: pile leggero e pesante, giacca in goretex, piumino, sacco da bivacco, pantaloni pesanti e calza a maglia. Non avevamo il sacco a pelo e il materassino, ma devo dire l’abbiamo un po’ invidiato alle altre cordate che ce l’avevano…

          Panorama dalla Zerotta Foto Alberto RampiniDescrizione

La cresta integrale di Peuterey rappresenta un’ascensione unica nelle Alpi: un totale di 4500 metri di dislivello, di scalata su roccia come su ghiaccio, di difficoltà, di discese in doppia. Questa combinazione stupenda è senza dubbio il modo più bello di percorrere la cresta di Peuterey: ad una magnifica arrampicata su roccia, seguono un’audace discesa in doppia e il percorso estremamente vario di una cresta senza rivali nelle Alpi (guida Vallot).
L’ascensione comprende la scalata della cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey, la discesa in doppia dal versante nord, l’attraversamento delle Dames Anglaises, la risalita verso le Aiguille Blanche du Peuterey passando sotto il Pic Gugliermina, la risalita al Grand Pilier d’Angle e la risalita fino in vetta al Monte Bianco di Courmayeur e quindi alla vetta principale.
Percorrere tutta la cresta sud dell’Aiguille Noire du Peuterey (vedi itinerario altrove descritto in questo sito).
Appena sotto la madonnina di vetta (circa 5-10 m), reperire il primo ancoraggio delle doppie del versante nord (chiodi). Attenzione a non prendere le doppie della forcelletta prima della vetta (quelle sono le calate della Ovest). Effettuare sempre doppie corte, reperendo (attualmente) quelle dotate di moschettone. Scendere, dopo circa tre doppie, un po’ a sx (faccia a monte), per reperire il profondo camino che porta alle cenge sottostanti la Breche delle Dames Anglaises. Circa 12 doppie.
Risalire il canalone (non andare alla Breche Sud), spostandosi progressivamente a sx, fino a giungere sotto il profondo camino della Punta Casati. Noi siamo saliti per circa 100/150 metri, poi, dove è presente una fettuccia, ci siamo spostati per una cengetta che taglia la parete da dx vs sx (non continuare nel camino!), effettuato un paio di tiri e quindi reperito la prima delle due doppie che portano alla Breche Centrale (si può anche giungere più facilmente, probabilmente, dallo speroncino di sx senza fare camino più cengetta).
Dalla Breche Centrale risalire con 2-3 tiri di corda l’Isolee, quindi con 2-3 doppie giungere al bivacco Craveri.                                Tempesta sulla Peuterey Foto Silvia Mazzani

 


Spostarsi a sx per delle cenge, quindi andare verso le cenge Schneider e risalire il terreno fino sotto il Pic Gugliermina (stare a dx, non percorrere il canalone sotto la breche della punta).
Risalire in cresta, fare una breve doppia e quindi risalire vs dx per circa 100 m (versante Brenva) e quindi piegare a sx per andare in cresta (versante Freney), fino a raggiungere la neve dell’Aiguille Blanche di Peuterey.
Raggiungere la Punta Centrale, e, per una cresta molto aerea, raggiungere la punta NW. Calarsi con 4 doppie, saltando la terminale, e raggiungere il Col du Peuterey.
Da qui, superare la terminale del Grand Pilier d’Angle, a volte molto difficile, per risalire tutto il versante di questo (più o meno al centro), puntando al Grand Gendarme.
Si può evitare il Grand Pilier d’Angle per il couloir Eccles (se in condizioni), ma così facendo si svicolerà parte dell’integrale. Aggirare il Grand Gendarme sulla dx (passando dietro), e quindi raggiungere la cresta nevosa. Percorrerla tutta, non stare mai nel canale-pendìo in alto (pericolo reale di caduta sassi, visti di persona), ma stare sempre sulla cresta.
A 4500 m circa, in prossimità di rocce affioranti, andare a sx, breve passaggio su roccia, e quindi ancora cresta nevosa fino a bucare la cornice terminale (che può opporre ancora problemi) del Monte Bianco di Courmayeur.
Quindi in vetta al Bianco.

 

Domenica, 13 Dicembre 2020 18:32

Il Club Alpino Accademico Italiano reputa inaccettabile il provvedimento liberticida della Regione Valle d’Aosta sulla pratica dello scialpinismo

Prendendo a pretesto necessità connesse con la situazione epidemica da Covid 19 la Regione Vda ha deliberato, tra l’altro, di vietare la pratica dello scialpinismo se non con l’accompagnamento di una Guida Alpina o Maestro di sci (Ordinanza n. 552 dell’11 dicembre 2020, punto 11).

Se la finalità è quella di limitare le potenziali necessità di interventi di soccorso e sanitari in questo momento delicato, la decisione appare incomprensibile sulla base dei dati statistici: le valanghe, anche di recente e anche proprio in Vda, hanno colpito sia praticanti privati sia gruppi accompagnati da professionisti.

Se viceversa la finalità, comunque non dichiarata, è quella di supportare una categoria professionale che sicuramente soffre disagi in questa situazione, la decisione appare arbitraria, discriminatoria e persino autolesionista in prospettiva futura. Possiamo infatti immaginare che anche una volta riaperta la Regione i turisti, nel dubbio o per presa di posizione, possano indirizzarsi a zone diverse, dove la libertà di movimento in montagna non ha subito queste limitazioni.

Appare quindi veramente inspiegabile sotto il profilo pratico questa disposizione, ma quello che più ci allarma è il suo significato liberticida.

Oggi con la scusa del Covid si limita con ordinanza regionale la pratica dello scialpinismo, domani potrà toccare all’alpinismo o all’arrampicata, alla mountain bike, all’escursionismo o ad altre attività in montagna perché è evidente che attività outdoor a rischio zero non esistono e pensare che sia possibile ridurre il rischio con un’ordinanza significa non aver capito molto del problema.

Il rischio si limita con politiche che promuovano attivamente la conoscenza, la cultura, la formazione e l’autoresponsabilità, riassegnando ai singoli la responsabilità delle loro scelte e l’assunzione delle conseguenze che ne derivano.

Questo non toglie, naturalmente, che i singoli comportamenti dettati da colpevole incoscienza o incapacità, da chiunque posti in essere, possano, e anzi debbano, essere sanzionati sotto tutti i profili.

Solo l’opposizione attiva, dura e senza sconti dell’intero mondo alpinistico a questo pericolosissimo precedente di limitazione arbitraria alla libertà delle persone potrà garantire per il futuro il mantenimento di quella libertà di accesso alla montagna che è presupposto non negoziabile di ogni esperienza alpinistica.

Anche il CAI ha preso posizione con l'articolo Non dividere gli amanti della montagna pubblicato su Lo Scarpone online.

Leggi anche gli articoli su Planetmountain e Montagna TV.

Il Collegio delle Guide Alpine della Lombardia prende posizione contro il provvedimento NON SIAMO D’ACCORDO

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Lunedì, 07 Dicembre 2020 16:56

Franco Miotto se n’è andato e con lui una testimonianza importante, e sempre più rara, di alpinismo di scoperta e di avventura, in poche parole di ALPINISMO ACCADEMICO nel suo significato più profondo

a cura di Alberto Rampini

foto 10

Ci ha lasciati lo scorso 7 ottobre, all’età di 88 anni, un grande interprete dell’Alpinismo con la A maiuscola.

FRANCO MIOTTO è stato Accademico per tutta la vita, quando percorreva le selvagge montagne dell’Agordino seguendo le tracce dei camosci, quando poi ha salito per vie nuove estremamente difficili e “ruvide” le grandi pareti nascoste delle Dolomiti e quando infine, più anziano, è tornato ad inventarsi i “viaz”, percorsi di scrambling, come oggi si direbbe, di difficoltà tecniche in genere contenute ma sui quali non si attenterebbero mai a mettere piede i forbiti arrampicatori del grado tecnologico attuale.

Una figura quindi di passaggio, dal carattere certamente non facile, ma che merita di essere approfondita così come l’insegnamento del suo percorso di vita verticale.

Ne tratteggia bene le caratteristiche il ricordo firmato da Ledo Stefanini e pubblicato su altitudini.it  pdfFRANCO_MIOTTO_ricordato_da_Ledo_Stefanini_su_altitudini.pdf

Foto da gognablogFranco Miotto e Ivo Rabanser

 

Innumerevoli gli altri articoli scritti in ricordo del nostro socio.

Ne proponiamo di seguito una breve scelta

 Franco Miotto ricordato su Lo Scarpone

 Una bella intervista su intraigiarun.com

 Il saluto su mountainblog.it

 Il ricordo della Gazzetta

 Il ricordo su mountlive.com

 Il ricordo su montagna.tv

                                                                                                Un ricordo diverso. Di Adriano Bee su old.altitudini.it

                                                                                                

Infine, perchè no?, Franco Miotto come viene presentato da un reputato sito generalista

Franco Miotto raccontato da Wikipedia

 

Un ricordo indiretto nelle parole dei pochi che hanno avuto la curiosità e il coraggio di andare a ripetere vie selvagge e dimenticate che portano la firma di Miotto

Sulla Via dei Camorzieri aperta nel 1984 da Franco Miotto, Valentino Prest e Pietro Fornesier sulla Palazza nei Monti del Sole, Dolomiti Bellunesi. Da Planetmountain.com

Ripetizione della Miotto-Bee al Burel per Ballico e Roverato su Planetmountain.com

Prima ripetizione della Diretta del Gran Diedro al Col Nudo per Baù e Roverato. Da Planetmountain.com

 

Le pubblicazioni di Franco Miotto

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  libro 5

Sentieri Viaz

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sabato, 28 Novembre 2020 18:19

Ancora una volta partiamo da Forlì in direzione delle Dolomiti. Come spesso accade siamo già a Longarone e non abbiamo deciso dove andremo a scalare. Simone ed io, un mio ex studente che ho avuto il piacere di conoscere prima in classe e poi di ri-conoscere come scalatore, decidiamo di dirigerci a Santa Fosca in Val Fiorentina, per “raccattare” Fabrizio Grimandi, amico comune con il quale condividiamo allenamenti e sogni durante l’inverno.

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 Ceniamo e chiacchieriamo ma alle 9:30 non abbiamo ancora deciso quale parete salire: unica cosa certa è che andremo a sud, le temperature sono calate bruscamente e a nord sarebbe troppo freddo. Simone ha letto su “PlanetMountain” che sul Pomagagnon delle guide di Cortina hanno aperto una nuova via: 900m, VII+ e roccia ottima: combinazione perfetta! Gli piacerebbe farne la prima ripetizione, e a noi l’idea piace. Ci dirigiamo così ad Ospitale (piccola frazione sopra Cortina) per lasciare una macchina (in quanto la discesa dalla via avviene sul versante opposto del Pomagagnon) e poi ritorniamo a Cortina vicino all’Ospedale. Prepariamo il materiale, piantiamo la tenda e ci mettiamo a letto. La notte passa come sempre troppo in fretta e ci sveglia che ancora vorremmo sognare.  Facciamo una breve colazione, chiudiamo la tenda e ci incamminiamo veloci fino all’attacco della via.

 

 

SDSC01691 001caliamo velocemente i primi facili tiri (dove occorre non sbagliare percorso per non finire su roccia pessima) e arriviamo alle prime lunghezze di corda difficili. Le superiamo agevolmente e, tiro dopo tiro, ci meravigliamo di quanto in questa parete, famosa per la roccia poco bella, tre giovani guide alpine siano riuscite a scovare una bella linea su roccia solida. Il morale è alto e, scherzando e ridendo, continuiamo a salire fino agli ultimi tiri difficili, che superiamo velocemente. Davvero una bella linea e davvero bravi gli apritori. Trovare un percorso con roccia ottima e difficoltà tutto sommato contenute è stata una bella intuizione.

Alle 16:00 circa siamo alla fine della penultima lunghezza, dove c’è il libro di via. Fabrizio e io lasciamo a Simone l’onore di aprirlo. “Simo” lo apre e, con grande stupore, siamo i primi ripetitori: “il sogno di Simo” si è avverato, e tutti noi siamo euforici! Saliamo in cima e in fretta ritorniamo all’Ospitale, perché tra poco si avvererà anche il secondo sogno: una bella pizza con una birra fresca!

 

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Ceniamo, salutiamo Fabri (che per fortuna sua può restare in montagna) e ci dirigiamo di nuovo verso la pianura e la Romagna. Un avanti e indietro che mi accompagna per tutta l’estate: infatti, Francesco Piacenza, mio “fratello di Ancona” mi ha già inviato un messaggio, “prossimi giorni il tempo è bello, andiamo in Dolomiti?”.

Samuele Mazzolini (C.A.A.I.)   http://www.samuelemazzolini.altervista.org/  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Sabato, 21 Novembre 2020 18:08

 

Il punto sull’attualità e le prospettive del Club Alpino Accademico nelle relazioni presentate al Convegno Nazionale di Trento (17 e 18 ottobre 2020)

L’alpinismo di oggi è diverso da quello di qualche decennio fa ed è radicalmente diverso non solo e non tanto per l’evoluzione delle difficoltà, ma per l’approccio mentale. Questa la considerazione di base dalla quale sono partiti i relatori.

Se gli alpinisti, e in particolare gli Accademici, sono sempre stati figli del loro tempo e quindi partecipi in prima persona degli eventi politici e sociali del momento, oggi l’universo verticale sembra aver costruito barriere insormontabili attorno a sé e gli alpinisti paiono vivere in una sorta di realtà separata, nella quale i grandi eventi del mondo compaiono solo nella misura in cui determinano difficoltà o limitazioni all’esercizio di quell’unico bene supremo che è l’esercizio dell’arrampicata sempre e dovunque. E le reazioni alla pandemia attuale ne sono un esempio emblematico. Costi quel che costi il mondo non si può fermare perché noi dobbiamo arrampicare.

Ma anche rimanendo all’interno di questo mondo sospeso, le “regole” sono talmente diverse da renderlo praticamente irriconoscibile. Un tempo alpinismo e arrampicata erano scoperta e avventura, anche perché mancavano alternative, oggi sono essenzialmente prestazione atletica, che assume due valenze: quella dei big, professionisti che grazie all’allenamento intenso e all’uso di mezzi sempre più sofisticati confezionano imprese di livello irraggiungibile e quella della massa un po' amorfa ed adagiata su un alpinismo a bassa prestazione, fortemente protetto e al riparo da qualsiasi soffio di imprevisto e di avventura. Ed entrambe queste valenze, pur agli antipodi per difficoltà ed ingaggio, sembrano accomunate da un artificioso ingigantimento delle reali capacità dei protagonisti grazie ad un uso sistematico di aiuti tecnologici e più l’arrampicata è libera e difficile e più paradossalmente è artificiale.

Un tempo le vie nuove venivano aperte e basta, oggi l’apertura significa poco, la via nuova è quella della prima ripetizione, della libera raggiunta magari dopo mesi e mesi di tentativi. Tutti concetti che derivano da un approccio chiaramente sportivo anche all’alpinismo di montagna. Alcuni valori ne guadagnano, molti si perdono purtroppo per strada, come la spontaneità, l’avventura e il rischio, che erano un tempo valori cardine dell’esperienza alpinistica.

In questo contesto del tutto nuovo e in forte evoluzione, come si colloca il Club Alpino Accademico, da sempre portatore dei grandi valori di un alpinismo tradizionale oggi messi in secondo piano?

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Il Convegno sulle pagine di Planet Mountain

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Le relazioni ed il dibattito hanno offerto molti punti di riflessione, che proponiamo con la pubblicazione del testo integrale degli interventi al convegno.

  

MARCO CORDIN un giovane alpinista non accademico

Abstract: è come se non ci fosse comunicazione. I giovani vedono la realtà degli accademici molto lontana

Marco Cordin ph C. BarboliniQuello che posso dire parlando da giovane e sentendo quello che dicono gli amici e anche gente forte, ben addentro al mondo dell’alpinismo, quindi gente che ne sa, è che la figura dell’accademico non è più forse tanto presa in considerazione al giorno d’oggi, e questo secondo me è un peccato. Oggi se un giovane cerca un riconoscimento prestigioso, una cosa ambiziosa, al di là dell’esercizio del lavoro, lo cerca nella patacca di guida alpina. Questa è la situazione al giorno d’oggi e io penso sia un peccato. Anche vedendo l’età media degli accademici è come se ad un certo punto fosse stato bloccato il ricambio generazionale. Anche parlando con gli amici giovani è come se non ci fosse comunicazione tra questa realtà degli accademici che noi vediamo molto lontani, tant’è che non sappiamo neanche bene come si entra nel mondo degli accademici e come funziona. E’ come se il CAI non stuzzicasse l’interesse dei giovani, ma non è che il CAI debba sforzarsi a stuzzicare l’interesse dei giovani, dovrebbe però fare una proposta costruttiva di apertura verso i giovani. Secondo me non c’è stata più comunicazione tra queste due realtà che ormai sono lontane.

 ALESSANDRO GOGNA Moderatore 

Alessandro Gogna ph C. Barbolini 1

 

 

 

 

 

 

Dobbiamo prendere nota che non è stato formulato alcun consiglio su come risolvere questa mancanza di comunicazione sulla quale effettivamente siamo tutti d’accordo. E’ vero che non c’è, si è rotto qualcosa o non c’è mai stato, non so

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIACOMO STEFANI Past President

Abstract: Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista del suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno sempre vissuto in modo prepotente il loro tempo

Giacomo Stefani ph C. Barbolini 1Quando ho incontrato ad Arco Giuliano Bressan e mi ha chiesto di raccontare la mia esperienza e in sostanza la storia dell’Accademico mi sono sentito lusingato ma ho capito subito che non era facile fare una nota e mettere assieme tutte queste cose. Poi mi sono ricordato di quando ero al liceo e si diceva che il dubbio è l’inizio della conoscenza e ho pensato che da lì potesse partire in qualche modo la mia storia dell’Accademico. Ho pensato che si potesse parlare degli alpinisti perché sono gli alpinisti che fanno la storia e quindi ho pensato di rivedere un po' gli alpinisti accademici che ho conosciuto a volte di persona oppure perché ho salito le loro vie, le loro pareti. Andrich, Gervasutti “il fortissimo”, Carlesso, Boccalatte, Bonatti Accademico e Guida - ma ormai sembra che questa differenza giustamente non ci sia più - un idolo per noi lecchesi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo quando lui stava già smettendo e noi stavamo cominciando la nostra attività. E poi il suo compagno Oggioni, Aste che voi conoscete bene perché è di questi luoghi. Ho pensato a volte che potremmo raccontare la storia guardando le montagne, ovunque andiamo vediamo una cima e pensiamo “là ci sono stati degli Accademici”. Guardiamo ad esempio la grande parete Nord Ovest del Civetta, potrebbe da sola farci la storia dell’Accademico: abbiamo Carlesso, Tissi al Pan di Zucchero, Aste, Andrich, quelli che hanno fatto l’invernale al diedro Philipp, anche recentemente Baù, oppure Comici o se ci spostiamo più a destra abbiamo la Cima Su Alto con Piussi e i lecchesi, Ratti e Vitali. Questa montagna da sola ci può raccontare la storia dell’Accademico e quando io, come tanti altri, ho iniziato ad andare in montagna avevo in mente proprio di andare a fare queste vie, queste montagne, magari in modo un po' irriverente, ma l’idea era sicuramente di andare a fare le vie di questi alpinisti. Credo che l’Accademico sia sempre stato protagonista nel suo tempo, non è mai stato avulso, gli alpinisti accademici hanno vissuto in modo prepotente il loro tempo.

E questo fin dall’inizio. Se sfogliamo il primo Annuario CAAI del 1908, riedito in copia anastatica in occasione del centenario della sua pubblicazione, ci rendiamo conto che questi alpinisti avevano l’idea già di insegnare e mettevano quindi le basi di quelle che sarebbero state poi le scuole di alpinismo. Nella prima pagina del volume si affronta il tema identitario e si parla delle guide: “ci inchiniamo volentieri ad esse ogni qualvolta le crediamo degne ma non vogliamo ostracismi e comunque simo diversi”. Direi che al di là di queste frasi di cortesia, i nostri predecessori erano tutti avvocati, ingegneri, laureati e probabilmente non sopportavano l’idea che delle persone brave ma spesso rozze potessero avere una qualche supremazia nell’andare in montagna e si sono in qualche modo organizzati per contrapporsi a questa situazione. All’inizio i nostri predecessori erano soprattutto anche scrittori, quindi pubblicavano guide, Berti è stato uno dei primi ad entrare nell’Accademico al momento della fondazione, quindi all’epoca l’alpinismo non era forse così estremo ma c’era certamente molta cultura dietro all’Accademico. Tra le due guerre invece la parte alpinistica di difficoltà assume un aspetto più importante, spinta anche dal fascismo che era parte integrante della vita di molti e per praticare l’alpinismo ad un certo livello bisognava comunque avere l’imprimatur del fascio. Ne sanno qualcosa i nostri concittadini che hanno fatto il Badile e che hanno ricevuto un telegramma di congratulazioni dall’allora segretario del partito fascista Starace e hanno ricevuto l’invito a presentarsi a Roma in presenza del duce con “pantaloni alla zuava, giubbetto, camicia e cravatta nera, scarpe da passeggio, capo scoperto” per ritirare una medaglia e la cosa si è ripetuta poi l’anno dopo con le Jorasses. Due telegrammi anche da parte dell’allora presidente dell’Accademico Aldo Bonacossa che si congratulava e soprattutto diceva “non potevi dare risposta più clamorosa all’Eiger”. C’era ovviamente allora questo nazionalismo spinto che portava le persone a contrapporsi. Però l’Accademico è anche diverso, ci sono state persone come Ratti, che era compagno di Cassin e probabilmente non era inferiore a Cassin e quindi ha fatto anche delle belle salite da solo, che poi è entrato nella resistenza e il 26 aprile è morto da partigiano nella liberazione di Lecco.

Il dopoguerra porta rinascita e speranze e leggendo i nomi di coloro che sono entrati all’Accademico in questo periodo, fino agli anni ’60-65’ troviamo tante persone, e alcune le abbiamo conosciute personalmente, che hanno lasciato un’impronta: noi leggiamo un nome e sappiamo ciò che quella persona ha fatto. In realtà era una rinascita dell’Italia e dell’alpinismo. C’erano meno avvocati ma più lavoratori con la loro voglia di ritornare a fare qualche cosa dopo la guerra.

Si comincia con l’alpinismo extraeuropeo perché allora tutte le grandi nazioni dovevano conquistare una cima e l’Italia raggiunge il K2 con capospedizione Ardito Desio, che era un Accademico, e con diversi componenti accademici, tra i quali anche Bonatti che come dice la storia certamente non ha demeritato.

Oppure il G4 nel ’58, spedizione guidata da Cassin e con Mauri e Bonatti in cima.

DSC 1957Dicevo che l’Accademico non è fuori dal mondo. Quando comincia il ’68 comincia il ’68 anche nell’alpinismo con il nuovo mattino e c’è una contestazione della degenerazione dell’alpinismo eroico e un tentativo di fondare un nuovo umanesimo della montagna. Il simbolismo della cima sparisce e l’ascensione non è più un mezzo per raggiungere la vetta e quindi cambia molto quella che è la percezione dell’alpinismo. Vengono poi gli anni di piombo e anche qui gli accademici non si tirano indietro, Guido Rossa era un anticipatore della rivoluzione culturale che poi sarà portata avanti da Motti ma era anche una persona, un sindacalista che ha avuto un impegno civile e morale senza tentennamenti ed è stato ucciso come sindacalista dalle brigate rosse il 24 gennaio del ‘79. Nel 2013 sono stati festeggiati i 150 anni del Club Alpino Italiano e siamo stati invitati a Roma al Quirinale dall’allora Presidente Napolitano e mi hanno chiesto di fare una relazione di due minuti e io ho raccontato solo questi due episodi Ratti e Guido Rossa per far capire come l’Accademico non è solo fatto di forti alpinisti ma anche di persone che sanno vivere il loro tempo e se ne prendono la responsabilità. Però con il passare del tempo il CAI diventa un enorme contenitore di attività di montagna e l’alpinismo ne occupa una parte sempre minore e questo lo vediamo sfogliando la Rivista Montagne 360 e ce ne accorgiamo tutti i giorni. Fortunatamente, e questo devo dire che durante la mia presidenza ho potuto constatarlo, al CAAI viene riconosciuto, dalla dirigenza del CAI, di essere un po' l’anima storica dell’alpinismo e quindi ogniqualvolta c’era una qualche manifestazione venivamo comunque interpellati. Cito ad esempio il libro che è stato fatto per le 150 vette, la manifestazione credo più importante per i 150 anni del CAI, ed è stato l’Accademico che si è preso il compito di organizzarla, di affidare alle singole Sezioni la possibilità di scalare delle cime e alla fine di farne un libro. E questo credo che sia alla fine un segno di fiducia che il CAI ha nell’Accademico. Saper fare, e quindi saper scalare, è sempre stata la nostra capacità. Quello che invece non siamo mai stati capaci di fare è "far sapere" e quindi quello che dobbiamo sforzarci di fare è proprio "far sapere".

Lo facciamo con i nostri Convegni annuali, ai quali poi si sono aggiunti incontri con altre associazioni di montagna, con le Guide nella cui presidenza abbiamo trovato grande disponibilità, e con la Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo e anche con associazioni che in qualche modo promuovevano delle attività culturali, come ad esempio il Premio Carlo Mauri e naturalmente credo che un ringraziamento particolare vada a Mauro Penasa che da tantissimi anni cura l’uscita dell’Annuario CAAI che è il nostro simbolo che tutti ci invidiano. Importante anche il sito web, che è stato cambiato diverse volte, che non ha ovviamente, e non potrebbe avere, la plasticità di un sito come Planet Mountain, ma è importante per dare informazioni e tenerci aggiornati.

Naturalmente non ci sono solo rose, ci sono anche le spine. Nel 2008 c’è stato un gruppo di alpinisti che ha fondato una associazione chiamata GAISA Gruppo Accademico Italiano Sciatori Alpinisti e quindi come sciatori volevano diventare Accademici . C’è stata una contesa che alla fine ci ha visti vincitori con una delibera del CAI nella quale si affermava che il termine Accademico poteva essere riferito soltanto al nostro gruppo. E questo secondo me è importante perché ci è stato ulteriormente riconosciuto quello che abbiamo fatto. Ma il tempo cambia è c’è poi il tema dell’ecologia, la difesa della montagna e la nascita di Mountain Wilderness a Biella 33 anni fa avviene in un Convegno promosso dal Club Alpino Accademico Italiano e da altre associazioni ovviamente ma in primis il CAAI e la Fondazione Sella. Ma anche la difesa della libertà in montagna è una cosa importante: L’Osservatorio, che è gestito in modo prevalente da Alessandro, e molto bene, ma nel quale l’Accademico ha dato il suo contributo. E il Clean Climbing: vogliamo un ambiente pulito? Ecco che il trad, il clean climbing è il modo migliore e l’Accademico sta cercando di portarlo avanti nel modo più possibile efficace. I filosofi greci, padri della cultura Occidentale, dicevano che non vi è nulla di immutabile tranne l’esigenza di cambiare. E questa esigenza di cambiare l’abbiamo vista anche noi quando si è trattato di cambiare lo statuto del CAAI, Art 19 comma C che ci dice oggi che il socio accademico che diventa guida può rimanere a tutti gli effetti socio purchè lo richieda espressamente. E’una cosa che ha fatto soffrire molte persone, che ha in parte diviso l’Accademico, ci sono state dimissioni. Io l’ho vissuta da presidente due volte nel 2011 quando la proposta era stata bocciata per due voti e uno era il mio e l’altro quello del mio compagno di cordata Sergio Panzeri, che veramente non volevamo una cosa del genere. Tre anni dopo è passata con pochi voti, perché chiaramente con gli anni cambiano le cose, cambiano le persone, cambiamo noi e come ho detto prima non c’è nulla di immutabile salvo la necessità proprio di cambiare.

L’ultima nota è per una persona che conoscevo ovviamente di fama ma che ho avuto modo di conoscere personalmente quando ero presidente e con la quale ho mantenuto una continua frequentazione letteraria, è stata una persona di una grandezza che faccio fatica ad immaginarne un’altra uguale. Mi ha fatto capire molte cose, una persona limpida e voglio proprio concludere con quello che lui mi scriveva, riportato da Dante. Dante si riferiva all’amore per Beatrice mentre lui si riferiva all’amore per la montagna: “Intender non può chi non lo prova”.

 

RAMPINI ALBERTO presidente generale

Abstract: credo che il socio Accademico debba avere, anche per immagine e bagaglio culturale, un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo. Inoltre qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico

Alberto Rampini ph D. Caltabiano 1Come tutti voi ben sapete, l’Accademico nasce nel 1904 con la finalità di avviare scuole di alpinismo che rendessero autonomi gli alpinisti che volevano salire le montagne in autonomia, senza avvalersi dell’accompagnamento di guide. Per fare questo, l’Accademico radunò attorno a sé come soci i migliori alpinisti non professionisti dell’epoca.

La finalità prima, quindi, era la mission, fare scuola, e l’elevato profilo tecnico e culturale dei soci era funzionale a questo obiettivo, non era fine a sé stesso.

Addirittura all’inizio non si parlava di curriculum dei soci, poi si cominciò a richiederlo, infine il curriculum divenne determinante nel momento in cui il CAAI, assieme al CAI, divenne negli anni 30 una associazione di regime aderente al CONI e acquisì un profilo decisamente orientato verso lo sport arrampicata e alpinismo.

Ma assieme al curriculum tecnico eccezionale il socio doveva dare garanzia di qualità morali e culturali pure di eccellenza.

Nelle modifiche successive del nostro Statuto il curriculum tecnico acquisisce sempre maggior rilievo mentre i requisiti di moralità a cultura vengono progressivamente ridimensionati.

Anche la finalità originaria del CAAI – fare scuola – viene meno nel momento in cui nascono le Scuole di Alpinismo del CAI e la relativa Commissione Nazionale Scuole. Esse nascono negli anni cinquanta su iniziativa di soci del CAAI e i dirigenti e gli istruttori sono in buona parte Accademici, ma la funzione “scuola” esce dalle attività istituzionali del CAAI.

Nello Statuto del CAAI rimane la finalità generica di promozione dell’Alpinismo e la qualità dei soci si basa principalmente su un curriculum tecnico e in via accessoria su attività di carattere culturale, esplorativo e organizzativo. Nella pratica invalsa, tuttavia, il focus è esclusivamente sull’aspetto tecnico del curriculum.

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Ma vediamo questi due aspetti, Curriculum tecnico e profilo etico/morale/culturale.

Curriculum tecnico

In base al Regolamento CAAI si richiede che l’Accademico abbia svolto attività alpinistica di particolare rilievo per almeno cinque anni e il Regolamento della Commissione Tecnica precisa che " L’attività alpinistica di particolare rilievo, alla quale è fatto riferimento in tale articolo, deve essere stata compiuta da capo-cordata o a comando alternato, e deve corrispondere a una delle seguenti alternative:

  1. numerose salite su ogni tipo di terreno con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme;
  2. numerose salite su roccia con difficoltà estreme;
  3. numerose salite con difficoltà di poco inferiori a quelle di cui ai punti 1 e 2, purchè integrate dalle attività non meramente alpinistiche previste all’ultimo paragrafo dell’art. 4 del Regolamento del C.A.A.I.

Appare chiaro che Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme, anche se devono essere riferite al periodo storico in cui le salite sono state compiute, sono concetti piuttosto vaghi e difficili da standardizzare. Tant’è vero che diversi tentativi di materializzare questi concetti in un “metodo” scientifico di valutazione hanno manifestato la loro inadeguatezza (metodo Manera, Metodo Scalet) e così anche i tentativi più pragmatici di individuare tipologie di salite di riferimento non hanno riscosso condivisione pacifica.

Il criterio pragmaticamente adottato è quello di considerare estreme le salite che rappresentano il top della difficoltà raggiunta dall’alpinismo nel periodo storico di riferimento. Questo concetto ha funzionato egregiamente per anni ma ha manifestato tutta la sua inadeguatezza sicuramente da oltre un decennio a questa parte, da quando cioè il livello dell’alpinismo è stato alzato in modo eclatante sotto la spinta della prestazione sportiva, diventando uno sport estremo. E questo sport estremo, a questi livelli, è oggi appannaggio esclusivo di una ristrettissima elite di atleti sostanzialmente professionisti.

E’ di tutta evidenza che la figura del socio accademico non può identificarsi in questa categoria di atleti e il CAAI non può essere portavoce di questa tipologia di alpinismo sportivo estremo. O perlomeno solo di questo. Ci fa molto piacere che alpinisti estremi condividano anche idealità dell’Accademico e ne facciano parte ma dobbiamo renderci conto che il CAAI non può rappresentare solo questa categoria di alpinisti, che è avanguardia della difficoltà ma chiaramente non rappresentativa del mondo alpinistico diffuso, compreso quello di difficoltà estrema alla portata dell’alpinista non professionista. E qui affrontiamo un altro tema rilevante, quello del professionismo. L’Accademico è per sua natura e statuto associazione di alpinisti per diporto, generalmente del tempo libero, non professionisti. E di questo occorre tener conto nel dare un significato concreto ai termini di cui dicevo prima: Attività alpinistica di particolare rilievo, salite di difficoltà estreme, salite con difficoltà di ordine superiore anche se non estreme.

In altre parole, secondo me, l’alpinista accademico “tipo” deve tornare ad essere non l’alpinista più forte in assoluto ma l’alpinista che presenta un curriculum di vie estreme per il periodo storico e per un non professionista, cioè una persona normale, che magari lavora, magari ha una famiglia, magari è anche impegnato nel CAI.

Ma non pensiate che con questo io intenda abbassare l’asticella di ammissione. Anzi!

Secondo me ad un parziale ridimensionamento del curriculum tecnico (non solo atleti fuoriclasse professionisti ma anche alpinisti estremi davvero anche se non atleti professionisti) si dovrebbe accompagnare una valutazione di più ampio respiro del curriculum stesso e un apprezzamento obbligatorio di attività veramente accademica, di avventura e di esplorazione. Oltre a requisiti culturali di cui parlerò dopo.

Torniamo al curriculum. Il curriculum deve essere ovviamente di qualità, le vie lunghe, difficili e di avventura, vie che un alpinista pur bravo in genere non affronta, e deve offrire l’immagine di una persona preparata tecnicamente, ma anche curiosa, amante della montagna e dell’avventura, dell’esplorazione di posti nuovi, che si mette in gioco su terreni diversi. Secondo me per valorizzare una significatività e rappresentatività della figura dell’accademico uno sbarramento necessario è quindi quello delle vie nuove: un Accademico non può non aver aperto vie nuove, la differenza tra un protagonista e un ripetitore è fondamentale e l’Accademico deve essere protagonista e indicare una strada, anche su come e dove si apre una via. E questo rimane nella storia dell’alpinismo.

Inoltre credo che l’Accademico debba avere anche per immagine e bagaglio culturale un’esperienza molto ampia di zone, gruppi montuosi e, perché no, di alpinismo extraeuropeo.

Non sostengo questo solo per un fatto di affezione, perché il mio curriculum personale rientra in questa categoria (e avrei quindi potuto essere presentato anche in un altro Gruppo), ma perché sono fermamente convinto che un curriculum anche estremo ma non diversificato è più proprio di uno sportivo che di un Accademico.

Guardando alla mia esperienza personale, sono contento di avere svolto un’attività completa. Sono entrato nel Gruppo Orientale ma avrei allo stesso modo potuto entrare nel Gruppo Occidentale.

Questo per quel che riguarda il curriculum.
Ma, come dicevo, l'impegnativo curriculum sopra delineato non deve essere l'unico elemento preso in considerazione. Se questo curriculum vale a qualificare la statura tecnica della persona, per qualificare la figura del socio accademico devono esserci ulteriori elementi. Profilo etico e profilo culturale.
Profilo etico
Non possiamo fare un processo alle intenzioni ma possiamo analizzare il curriculum e i comportamenti per capire se il candidato si è mosso e si muove in sintonia con i principi della nostra associazione. E lo possiamo dedurre dal carattere del curriculum, dal carattere in particolare delle vie aperte, dall'attività divulgativa e operativa nei vari ambiti in cui la persona ha operato e opera. La coerenza del socio accademico con i principi dell'associazione non può essere solo teorica ma deve guidare i comportamenti concreti. L'Accademico deve essere un esempio di comportamento corretto e coerente.

Profilo culturale
Siamo tutti convinti, credo e spero, che L'Accademico sarebbe ben poca cosa se si risolvesse in un semplice titolo onorifico. L'Accademico come associazione e quindi i singoli soci accademici sono investiti di una mission, che potremmo sintetizzare così: promuovere, o forse oggi sarebbe meglio dire tutelare, una forma di alpinismo d'avventura, creativo, poco invasivo, rispettoso della storia, dell'ambiente e basato sulle capacità dei singoli.
Per promuovere questi ideali i soci devono avere un adeguato profilo culturale e di iniziativa e questo si può ricavare dall'esame di quello che un candidato ha fatto (oltre le scalate): pubblicazioni, articoli, conferenze, partecipazione al dibattito sull' alpinismo, impegno didattico orientato ai principi del CAAI ecc ecc.


Il curriculum assicura il livello tecnico, il profilo culturale assicura le basi per poter contribuire alla mission dell'Accademico.
Perché facciamo parte del CAAI e siamo orgogliosi di farne parte? Per soddisfare la nostra ambizione? Forse anche, ma soprattutto per contribuire assieme agli altri soci a promuovere un alpinismo che ci piace e nel quale crediamo.

Ecco quindi che qualità morali indiscusse e profilo culturale di adeguato spessore debbono tornare ad essere elementi fondamentali nello skill del candidato accademico.

Quindi, concludendo in estrema sintesi:
A . Curriculum Alpinistico tradizionale di eccellenza, vario, su tutti i terreni e completo di spedizioni e vie nuove.
B. Profilo culturale elevato, comportamento alpinisticamente coerente

Ultimo punto al quale voglio fare cenno è quello relativo alla necessità di individuare canali di comunicazione e spunti per catalizzare l’interesse dei giovani. Credo che il CAAI in modo particolare, ma anche l’alpinismo più in generale, non possa e non debba diventare un’attività di massa, per cui, diversamente da tante altre Sezioni del CAI e dal CAI stesso, a noi non interessa aumentare il numero dei soci ma piuttosto tenerne alta la qualità e favorire l’ingresso di alpinisti giovani. Questo è veramente uno degli obiettivi fondamentali che dobbiamo perseguire per il rinnovamento del corpo sociale. E i dati che vi ho illustrato prima credo non necessitino di ulteriori commenti. Ma di queste problematiche parleranno poi nel loro intervento Samuele e Francesco.

MAURIZIO GIORDANI Accademico e Guida Alpina

Abstract: ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così. E’vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito

Maurizio Giordani ph A. Rampini 1Il tema che cercherò di sviluppare sicuramente non è semplice, perché l’alpinismo come è oggi lo vediamo ma dove andrà l’alpinismo nel futuro è davvero difficile da immaginare. Partiamo da un dato: guardandoci intorno oggi qui in sala sorge spontanea una domanda: i giovani dove sono? I giovani dell’Accademico ci sono stati e ci sono, io sono entrato a 25 anni così con tanti dei miei amici con i quali scalavo in quel periodo, allora si entrava a 25/30 anni e anche prima però poi magari molte di queste persone si disperdevano o non partecipavano alla vita sociale cosa che è importante. Questo permette anche di fare delle domande: cosa sta succedendo? Ci sono meno persone che arrampicano? Che fanno alpinismo? Non credo. Prima di venire qui ero questa mattina ad arrampicare in Valle del Sarca e quando sono in parete mi guardo intorno e devo essere sincero e dire che sulle pareti della Valle del Sarca c’erano decine e decine di cordate, cosa che sicuramente non capitava 20 o 30 anni fa quando sicuramente non c’era tanta gente che scalava. E quindi ci domandiamo: che tipo di alpinismo stanno facendo queste persone, questa quantità di persone che sta attaccata alla roccia? E’ anche abbastanza semplice dare una risposta. Se andate in Valle del Sarca e guardate vi rendete conto: ci sono pareti alte anche mille metri ma il 90/95% delle cordate le trovate nei primi 200 metri. Se poi con il binocolo alzate gli occhi verso l’alto e cercate qualcuno nella parte alta delle pareti è difficilissimo trovare qualcuno. Questo è un segnale che il mondo è cambiato ed è andato verso la direzione di comodità, di accesso facile, di togliersi le problematiche che ti potrebbero creare delle cose inaspettate: restiamo comodi, restiamo vicino a casa, restiamo sulle vie che conosciamo, dove tutto diventa più facile. Questa convinzione di come stanno andando le cose mi è stata un po' confermata da spunti venuti da analisi fatte anche in altri campi dell’attività umana: ci sono stati nella storia periodi in cui è venuto meno l’entusiasmo, ci sono stati invece periodi di grande crescita culturale ed economica, nei quali le persone gareggiavano a portare entusiasmo e a diffonderlo e quindi c’erano grandi cambiamenti in atto, veloci, che hanno portato l’evoluzione e il cambiamento. Si può pensare positivo o negativo, comunque qualcosa di importante è cambiato. Negli anni del boom economico sappiamo tutti cosa è successo nel nostro Paese, tutto diventava più florido, più facile, più interessante. Ci sono stati di contro altri periodi nei quali tutto si è smorzato. Io questo smorzamento lo vedo anche oggi nella nostra società. Non c’è più la rincorsa a migliorarsi in maniera importante, tutto è diventato un po' più rilassato, un po' più monotono, chiamiamolo “normale “ se vogliamo. E nell’alpinismo mi sembra sia successo più o meno la stessa cosa: è cambiata la qualità di quello che si fa. Naturalmente mi rifaccio alla mia esperienza personale, a come scalavo qualche anno fa o negli anni ’80: si ricercava l’avventura, la via nuova, cose un po' particolari.

Volevo prendere spunto da un libro che sicuramente qualcuno ricorderà “Sentieri verticali” un libro del 1987 che dava un quadro molto preciso di quello che stava succedendo e di quello che era successo in alpinismo fino a quel momento. Rileggendo recentemente alcuni capitoli, mi è venuto da pensare che cosa succedeva su alcune grandi pareti delle Dolomiti come Civetta o Marmolada, e parlo solo di queste perché sono casa mia e le conosco meglio. Con mezzi molto limitati, pochi chiodi, si superavano pareti selvagge affrontando difficoltà certamente non pari a quelle di oggi ma sicuramente da non sottovalutare, anzi.

Che cosa è successo oggi? Secondo me ci si è un po' allontanati da questo modo di scalare, la spinta verso l’approccio sportivo all’arrampicata ha ovviamente costretto l’arrampicatore a rivedere i mezzi di protezione perché salire una via di ottavo grado con quattro chiodi come si faceva sul sesto è ovviamente difficile quindi ci si protegge maggiormente per cercare di elevare la potenzialità fisica dell’arrampicata sportiva. Questo è successo e sta succedendo sempre di più. Il problema che io vedo nella diffusione di questo modo di fare è che elevare sempre di più la potenzialità fisica dell’arrampicata o si è professionisti  e si fa solo quello oppure bisogna essere dei superdotati ma siccome tutti noi abbiamo due mani e due gambe i limiti dell’arrampicatore normale sono reali. Questa corsa all’irrealtà è un po' il problema di oggi: ci vogliamo proporre come dei supermen, dei supereroi dell’arrampicata, cosa che non possiamo essere, per varie ragioni.

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Sarebbe molto più semplice fare qualche passo indietro verso la realtà di quello che possiamo fare e accontentarcene perché volere sempre di più, rincorrere verso l’alto la scala delle difficoltà comunque sia ci allontana da quelle che sono le nostre reali potenzialità. Leggevo su internet che per salire la via Quo Vadis al Sass dla Crusc Nicola Tondini, uno degli scalatori più eccezionali che ci sono, per riuscire a liberarla ha fatto 29 voli provando e riprovando finchè alla fine è riuscito nell’impresa. Io, col mio modo di pensare, se penso a 29 cadute penso che avrei dovuto morire 29 volte mentre facevo quel tentativo perché non ero all’altezza di passare senza la caduta e quindi ho avuto bisogno di un grande aiuto psicologico, fisico, di materiale per riuscire a proporre quel grandissimo exploit che è salire un nono grado su una parete delle Dolomiti. E questo mi fa pensare che effettivamente potrei non esserne stato all’altezza anche se poi alla fine a forza di tentativi a forza di provare e riprovare sono riuscito nell’intento. Però il mio intento l’ho portato a termine in che modo? Eticamente parlando in un modo che mi piace o in un modo che non mi piace? Personalmente sono convinto che questo modo non mi sarebbe piaciuto. Io sono sempre stato un ricercatore dell’incognita, dell’avventura, se una cosa riesco a catturarla al volo provando le varie emozioni di incognita appunto senza preparare a fondo quello che sto facendo mi dà un’enorme soddisfazione. Ma il lato sportivo è diverso. Noi allora scalavamo in quel modo nei nostri anni, non ci sarebbe mai venuto in mente di tornare sulla Via dell’Irreale o su Fantasia per cercare di liberarla: la via è nata così e così mi aveva dato soddisfazione. Il problema è che nessuno è più tornato a cercare di salire su queste vie quindi ci siamo allontanati effettivamente dall’alpinismo. Nella conclusione del libro di Sandro “Sentieri verticali” leggevo “…è ancora troppo presto per giudicare…” (parlava di alcune vie che avevo aperto in Marmolada) sono passati 35 anni e queste vie non sono ancora state ripetute quindi vuol dire che se era presto trentacinque anni fa oggi dove siamo finiti? Cosa abbiamo davanti? Ci siamo allontanati dalla possibilità di andare a toccare con mano quello che si faceva 30/40 anni fa. E ci siamo allontanati per una semplice ragione: perché ci siamo abituati alla comodità, alla comodità di approccio, alla comodità di protezione, alla diminuzione di rischio… non la sto vedendo come una cosa negativa, intendiamoci, è solo una valutazione di quello che succede. Questa incapacità, che riguarda anche me, perché anch’io scalo così oggi perché a sessant’anni non ho forse più la voglia di andare a fare quello che facevo a venti e quindi scalo in maniera diversa, vado un po' più prudente forse, però quello che facevo negli anni ottanta non era una situazione di rischio, mi sentivo sicuro a scalare in quel modo, con poche protezioni, cercando di limitare l’uso del materiale il più possibile, perché non ho mai azzardato in quello che facevo, ho sempre cercato di arrampicare in maniera molto sicura. Quello che facevo era semplicemente avvicinare IL MIO GRADO DI SCALATA REALE al grado che poi riuscivo a fare realmente in parete, senza esagerare.

Oggi devo dire che gli itinerari più importanti, ad esempio in Dolomiti, sono diventati praticamente irraggiungibili e le vie più famose, quelle che si trovano nei libri di storia, sempre meno persone sono disposte, non capaci, perchè non sto mettendo in discussione la capacità di chi scala al giorno d’oggi, anzi abbiamo visto che in casi eccezionali personaggi come Matteo della Bordella, come Nicola Tondini e tanti altri fanno delle cose eccezionali. Quindi le cose eccezionali si fanno anche oggi, quello che oggi ci ha allontanati un po' è il riuscire a riproporre un modo di scalare avventuroso e questo allontana un po' la massa dalle grandi salite che alla fine sono state e sono quasi dimenticate.

Ma vorrei sentire su questo il parere di Alessandro Gogna, visto che proprio dal suo libro ho tratto ispirazione per avviare il mio discorso. Cosa ne pensi di quello che succede? Ad esempio quest’anno ho telefonato a Dante Del Bon al Rifugio Falier in Marmolada e gli ho chiesto: ”mi sai dare un’idea di quante cordate nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada?” Mi sembrava questa una cosa curiosa da sapere. Allora vi posso garantire che nel 2020 sono arrivate in cima alla Marmolada per la Parete Sud meno cordate che in un sabato di bel tempo del 1985. Tu Alessandro cosa ne pensi di questa situazione? La stessa domanda la posso fare a Marco Cordin, che è un forte arrampicatore e giovane e quindi con lo stesso entusiasmo che avevamo noi allora. Perché se più nessuno va a scalare su un certo tipo di vie, quale è il motivo? Ho citato la Marmolada, ma lo stesso vale per il Sassolungo e per tante altre grandi pareti, ma se vai al Falzarego fai fatica a trovare vie libere, praticamente devi fare la coda mentre se vai in Marmolada il Rifugio è praticamente vuoto e le cordate non ci sono.

Risponde Marco Cordin: "sono praticamente d’accordo con te, oggi c’è più spinta verso la comunità. Ti faccio un esempio: quando recentemente siamo andati a fare la Via del Pesce nella parte alta della parete non c’era praticamente nessuno, la maggior parte delle cordate arriva fino alla cengia e poi scende e allo stesso modo ad esempio si vanno a cercare quelle vie sullo Specchio, vie di difficoltà più elevate ed effettivamente è più comodo fare la metà più difficile della via e poi scendere piuttosto che farla tutta e portarsi dietro il materiale per scendere dal ghiacciaio eccetera".

Ma tu, dal tuo punto di vista di giovane, vedi anche tu che c’è stato un allontanamento  da un certo tipo di alpinismo che si faceva anni fa o secondo te comunque c’è un interesse che viene mantenuto verso un certo tipo di scalate e di alpinismo?

Risponde Marco Cordin: “Io sono convinto che sia molto cambiato, soprattutto verso l’avventura ma vista sul lato dell’alta difficoltà. Se a uno che inizia a scalare gli racconti di queste vie, la prima cosa che ti chiede è “Ma che grado è?” piuttosto che chiederti quanti giorni siete stati su o come è stata l’avventura. Si cerca soprattutto il gesto tecnico e atletico sull’alta difficolta piuttosto che l’avventura”.

Sì, è vero, ma questo è riservato a pochissimi big, per cui possiamo affermare che esistono dei picchi di capacità che escono dalla normalità per cui ci sono personaggi che propongono grandi ascensioni prevalentemente sportive e dall’altra parte c’è una massa che si è un po' adagiata su ascensioni meno impegnative, meno scomode, meno rischiose e un po' più facili da portare a casa. Più divertenti magari e il termine plaisir nasce proprio da questo.

In conclusione quindi ritengo che l’alpinismo si sia spostato da un alpinismo di avventura (e tutti facevano quello perché c’era solo quello) ad un alpinismo sportivo, nel quale alcuni propongono grandi salite e la maggior parte delle persone scala, e scalano molte più persone di prima, ma su cose più normali, chiamiamole così.

Moderatore: dagli interventi di Giordani e Cordin emerge chiaramente come sia cambiato il senso dell’avventura. Se è vero che Tondini, che stimo molto come alpinista e come persona, si permette di volare 29 volte su un tiro in montagna e sopravvive mentre Giordani, come ci ha detto, ai sui tempi in quella situazione sarebbe morto 29 volte, è evidente che qualcosa è cambiato, anzi molto è cambiato. L’avventura è diversa e questo diverso è dato sicuramente dal discorso sportivo e dal fatto che si siano delle protezioni che ti permettono di fare questi 29 voli.

Giordani: questo mi porta a pensare che l’arrampicata di oggi, pur nella crescita esponenziale delle difficoltà che si riescono a fare, è molto più artificiale di quella che faceva Comici sulla Civetta con sei chiodi attaccati all’imbrago. Mi viene da pensare che è vero che si fanno delle cose eccezionali ma si riescono a fare solo perché c’è una montagna di tempo, di disponibilità, di materiali, di allenamento e questo è un po' falsato rispetto alle reali capacità di un arrampicatore, viene tutto ingigantito.

Moderatore: sono anche tante le regole del gioco che stanno cambiando: quando un Comici, un Cassin, un Giordani, chi volete, quando arrivavano in cima a una via, la via era fatta. Adesso no, non è più così, c’è chi arriva in cima e non lo dice neanche, aspetta un mese, due mesi, sei mesi, quel che serve, fino a quando riuscirà a percorrerla in libera. Solo allora si parla di prima ascensione.

Giordani: in effetti oggi spesso non si conosce come è stata aperta una via mentre la storia dell’alpinismo ha sempre insegnato che il valore di una salita era dato dal come veniva aperta. E’vero, è già da qualche anno che la prima ascensione viene nascosta e viene proposta la prima ripetizione, mai la prima ascensione.

Moderatore: questo la dice lunga sul discorso sportivo, che ha preso il sopravvento. La via è aperta quando viene ripetuta in libera, prima non è niente, sei solo passato di lì, ma la via non esiste. Un tempo questo era alpinisticamente valido, adesso “l’alpinisticamente valido” è stato soppiantato dallo "sportivamente valido”.

Giordani: vorrei alla fine dare qualche indicazione in ordine all’altro tema del convegno, relativo alla collocazione attuale e alle potenzialità dell’Accademico, per esserci ed esserci in modo importante. Mi piacerebbe che il mondo accademico potesse dire la sua nella storia dell’alpinismo, in maniera ancora più importante di come lo fa oggi con l’Annuario, che è sicuramente una delle pubblicazioni più importanti che abbiamo, però sarebbe bello che fosse disponibile un archivio dell’alpinismo, una enciclopedia dell’alpinismo gestita da una commissione di accademici, gente preparata, competente che può dare le indicazioni di quello che è stato fatto e di quello che si fa. Sappiamo benissimo che al giorno d’oggi l’informazione alpinistica è prevalentemente in mano ai giornalisti e questa non è una garanzia di chiarezza e spesso le notizie che arrivano sono distorte, falsate o spesso tanto “si dimentica” di dire. L’Accademico potrebbe gestire una sorta di Wikipedia della montagna.

ANSELMO GIOLITTI Accademico

Abstract: presento le conclusioni del Gruppo di Lavoro volte ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato, sia essa di stampo più classico ma di “grande respiro”, o piuttosto rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina

Anselmo Giolitti ph A. Rampini 1

LINEA GUIDA PRESENTAZIONE ATTIVITA’ CANDIDATI CAAI

La presente “Linea guida” non rappresenta un obbligo assoluto da rispettare da parte dei Presentatori e del candidato, si tratta piuttosto di consigli, di un indirizzo il cui intento mira ad evidenziare nel modo migliore possibile l’attività accademica del candidato sia che essa sia di altissimo livello, sia di stampo più classico ma di “grande respiro”, o ancora rivolta in modo particolare verso una specializzazione in una particolare disciplina

La modulistica che deve essere compilata si compone di sei parti distinte :

                 vie di alta difficoltà (ripetizioni, nuove aperture, solitarie, invernali)

in questo modulo vanno indicati i cinque anni migliori con 10/15 vie per ogni singolo anno.

L’attività alpinistica dovrà essere scremata riportando solo vie su roccia, ghiaccio o misto, significative, dal TD/TD+ e con lunghezze significative. Evitiamo vie di difficoltà inferiore al TD, sempre che non abbiano un valore particolare e le vie corte sotto i 200/300m, sempre che non siano particolarmente significative. Per le salite in quota (alta montagna) riportare solo salite con difficoltà D o superiore

                                                 attività extraeuropea

in questo modulo si ha libertà di indicare la propria attività riferita all’intera carriera alpinistica

                                         attività sportiva, trad, dry tooling

indicare in questo modulo un massimo di 25/30 vie con una difficoltà minima di 7a a vista e 7c lavorato. Per le lunghezze Trad il grado minimo richiesto è il 7a, per quelle di dry tooling D8

                               attività sulle cascate di ghiaccio

indicare in questo modulo un massimo di 25/30 cascate (minimo due lunghezze - 80/100 m.) con una difficoltà minima pari al 5 e M6

                                 attività didattica, culturale, divulgativa

indicare in questo modulo il proprio impegno in tal senso allegando articoli, blog, libri eventualmente prodotti.

             elenco delle 25 migliori vie di tutta l’attività alpinistica

Tenendo conto di un’apertura verso nuove discipline è infine possibile aggiungere ai sopracitati moduli un estratto della propria attività (un esempio potrebbe essere dato dalla pratica dello Sci Ripido )

I presentatori devono aiutare il candidato nella compilazione della modulistica (eventualmente avvalendosi del consiglio dei membri della CT con i quali è auspicabile la maggior collaborazione possibile al fine di avere evidenze delle qualità del candidato stesso) controllando bene affinché la stessa risulti completa, corretta nei nomi, nelle difficoltà, nelle lunghezze e ogni altra caratteristica di ogni singola via;

Il candidato dovrà presentare due copie cartacee dei moduli relativi all‘attività , complete della domanda di ammissione firmata, oltre ad una versione pdf con pagine in formato A4;

Il candidato dovrà utilizzare solo i moduli ufficiali e non moduli personalizzati;

Su ogni modulo ufficiale si possono riportare più anni, basta lasciare una riga bianca tra un anno e il successivo.

ITER PROCEDURALE CONSIGLIATO PER LA PROPOSTA DI NUOVE CANDIDATURE

1)  Un candidato deve essere presentato da almeno due soci del CAAI (presentatori)

2) Il candidato, in via preliminare, deve presentare il proprio curriculum compilando l’apposita modulistica che si compone di 6 parti distinte :

  • vie di alta difficoltà (ripetizioni, nuove aperture, solitarie, invernali)
  • attività extraeuropea
  • attività sportiva, arrampicata trad, dry tooling
  • attività sulle cascate di ghiaccio
  • attività didattica, culturale, divulgativa
  • elenco delle 25 migliori vie di tutta l’attività alpinistica.

E’ necessario consegnare tutte e sei le parti delle quali si compone la modulistica anche nel caso che alcune di queste rimanessero in bianco (in questa fase preliminare non è invece necessario compilare tutti i campi “generici” dei moduli della parte iniziale, sono sufficienti età, anni complessivi di attività).

Facoltativamente è anche possibile presentare un CV completo esposto liberamente, indicando, nel caso, il numero (anche approssimativo) di salite effettuate nei gruppi differenti da quello di appartenenza e/o il proprio impegno nell’attrezzatura/manutenzione di falesie e vie.

3) Il candidato allega una lettera di presentazione riportando le ragioni per cui desidera entrare nel sodalizio;

4) I presentatori devono far visionare l’attività ai componenti della commissione tecnica, motivando adeguatamente le ragioni della candidatura (verbalmente o per via cartacea) per una valutazione preliminare;

5) La candidatura, accompagnata dalla valutazione preliminare della C.T., sarà presentata ufficialmente all’assemblea del “Gruppo” con le seguenti modalità:

  1. a) Il candidato, con l’aiuto dei presentatori, compila la sua attività sugli appositi moduli ufficiali del CAAI (2 copie cartacee). Si raccomanda la corretta e completa compilazione dei moduli. Dovrà essere fornita anche una versione digitale;
  2. b) I presentatori dovranno allegare una lettera per motivare le ragioni di tale candidatura, illustrando lo stile alpinistico del candidato ed eventualmente il carattere e le potenzialità di quest’ultimo.
  3. c) Il candidato allega la lettera di presentazione di cui al punto 3) riportando le ragioni per le quali desidera entrare nel sodalizio.
  4. d) Il candidato dovrà far pervenire tutta la modulistica ufficiale in 2 copie (utilizzando gli appositi file digitali modificabili, compilandoli e salvandoli in formato PDF) e la lettera di presentazione alla presidenza o al segretario, entro il termine ultimo del 15 ottobre;

6) Nel caso si avesse notizia di informazioni che mettono in discussione l’attendibilità o la veridicità della candidatura, chiunque (socio, componente della C.T, …) ha il dovere di informare il presidente del gruppo, il quale, a sua volta, informerà i presentatori per le necessarie verifiche.

Il presidente, sentiti i vari pareri e fatte le opportune verifiche, decide se dar corso alla candidatura o ritirarla, anche se la stessa è già passata al vaglio dell’assemblea o della C.T.C.

7) L’assemblea deve valutare il candidato riguardo tutti gli aspetti: tecnico, esplorativo, culturale, organizzativo ed etico;

8) La C.T.C. è l’organo di consulenza del C.G. e deve valutare le candidature esclusivamente sotto il profilo tecnico. Se sorgono dei dubbi in merito alla veridicità dell’attività o altri elementi negativi, si deve informare il presidente del gruppo che avvierà l’iter di verifica di cui al punto 6.

SAMUELE MAZZOLINI Accademico

Abstract: dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna

Samuele Mazzolini ph A. Rampini 1E’ vero quello che è stato detto, oggi nonostante tutto c’è molta gente che arrampica e io sono convinto che con queste persone noi dobbiamo comunicare per portare i nostri ideali. Vi porto un aneddoto. Io vengo dal mare, da Cesena, un paese in cui l’alpinismo è approdato tardi e io mi sono trovato ad allenarmi per poter fare proprio quelle vie classiche di cui parlava Giordani (quelle che oggi fanno in pochi…) perché sono sempre stato prima che un arrampicatore un amante dell’avventura. Iniziando come autodidatta una volta mi trovo alla palestra di La Saxe a Courmayeur con un amico cercando di fare una via in artificiale con delle figure meschine, mi immagino adesso. In quella situazione arriva un arrampicatore, credo forte ma che non ho mai capito chi potesse essere, fa slegato una via di fianco alla nostra e poi cominciamo a parlare. Gli confidiamo che il giorno dopo volevamo andare a fare una via in artificiale di Bertone perché, scarsi per scarsi, almeno una via in artificiale aveva i chiodi e questo ci sembrava già qualcosa. E lui, invece di dirci: ”ma dove volete andare, non vedete come siete scarsi?" ci disse semplicemente “ Guardate che Bertone aveva le braccia lunghe”. In modo molto elegante, non offensivo e tranquillo ci suggeriva di cambiare via. Questa delicatezza mi è rimasta impressa nella mente e credo che un atteggiamento simile dovremmo averlo con le tante persone, soprattutto i giovani, che incontriamo e che non sanno nulla di alpinismo, perché purtroppo oggi si parte dalle palestre con le prese di plastica quindi tutto quello che era rischio, tutto quello che era etica, tutto quello insomma che è capitato a noi ai ragazzi non capita. E non è certo facile trasmettere avventura oggi. Noi dobbiamo cercare di intercettare quelli che praticano arrampicata nel loro territorio e far loro capire che c’è anche un altro modo più avventuroso e alla fine più soddisfacente di andare in montagna. Credo che questo sia l’approccio corretto ai giovani arrampicatori piuttosto che ergersi sul piedistallo di quelli che fanno/hanno fatto cose che voi non riuscite neanche a comprendere. Anche le iniziative di arrampicata trad sono importanti, perché così la gente prova e riesce a capire la differenza tra lo spit e la tua autoprotezione e riesce poi anche a capire il valore delle vie storiche.

FRANCESCO PIACENZA neoaccademico

Abstract: gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo. Un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto

Francesco Piacenza ph C. BarboliniVoglio prendere spunto da alcuni concetti emersi oggi dalle relazioni e dal dibattito per cercare di proporre qualcosa che possa aumentare la comunicazione tra l’Accademico e il mondo reale.

Sono entrato da poco all’Accademico e mi ricordo che la prima volta che partecipai ad un convegno del Gruppo Orientale qualcuno disse che gli Accademici sono i cavalieri della storia, e questo mi ha colpito. Io sono istruttore di alpinismo e di arrampicata libera e mi sono chiesto quale è la differenza tra un istruttore o tra un alpinista normale e un Accademico: la differenza è che forse un accademico ha avuto più esperienze, più avventure, ha quindi una storia in più da raccontare e questo è importante sotto il profilo della comunicazione. Ma queste storie sarebbe bello che fossero raccontate. Ci sono diversi modi di raccontare una storia ma se ognuno di noi (e siamo oggi 291) scrivesse o si facesse intervistare su una delle migliaia di storie che abbiamo vissuto in montagna, ecco che ci sarebbero già 291 storie di accademici a disposizione del pubblico. Qualcuno poi parlava del titolo di accademico come riconoscimento. Io credo che non sia questo: quando io sono entrato ho assunto l’onere di essere come dicevamo un cavaliere della storia, con il compito di tramandare questi concetti a tutte le persone che vedo nei corsi di alpinismo. L’idea che deve passare ancora di più è che diventare socio del CAAI non deve passare solo attraverso un curriculum tecnico ma anche attraverso la capacità di trasferire l’etica dell’alpinismo, la passione per coltivare la storia dell’alpinismo tra le persone. Come associazione non mi serve un nuovo membro che prende la patacca e continua a fare la sua vita di prima senza farsi carico di questa mission di comunicazione.

E come fare quindi a trasmettere questi valori? Giacomo diceva prima che il socio accademico faceva scuola, aveva un profilo etico, culturale di alto livello. Oggi purtroppo assistiamo ad un decadimento culturale e di senso civico dell’italiano medio ai minimi termini. Dobbiamo quindi intervenire nelle scuole di alpinismo: se ad ogni corso ci fosse un Maurizio, uno qualunque di noi che racconta una propria avventura si darebbe quel quid in più per far venire in mente, per trasmettere al corsista che ancora ha la mente aperta e può recepire tutto ciò che gli diciamo. Anche noi a nostra volta abbiamo avuto delle persone di riferimento e se ora diventiamo noi le persone di riferimento nei corsi nasceranno forse degli alpinisti interessati all’etica, alla cultura e all’amore per l’alpinismo. Oggi la gente guarda i siti e la difficoltà dei tiri, nessuno si compra più il libro, nessuno legge la storia dell’alpinismo e in questa situazione una presenza sistematica degli accademici nei corsi sarebbe importante per introdurre i criteri di etica, avventura e alpinismo.

Come diceva Maurizio gente che scala oggi ce n’è ben più di una volta, ma in gran parte indirizzata a pareti comode e ben protette e questo è figlio della ricerca quasi ossessiva della protezione sicura anche da parte del CAI nei suoi corsi e questo alla fine va contro l’alpinismo ed è lì quindi che dopo una lezione sui tasselli, sui coefficienti di tenuta ecc un nostro intervento sull’avventura potrebbe smorzare un po' l’ossessione verso questa ricerca della sicurezza che oggi prevale in modo assoluto. Intendiamoci, ben venga la sicurezza naturalmente, ma anche lanciare qualcosa di diverso sembra molto importante.

Mazzolini: Credo che questi interventi di carattere didattico siano molto importanti ma sono convinto che quando una cosa la vedi e la proponi sia molto più coinvolgente. Far provare, magari anche un semplice monotiro, far posizionare i friend, capire se tengono, far capire la soddisfazione di autoproteggersi e capire quindi anche l’etica di apertura che dal vivo viene spiegata meglio che da tante parole. E capire che tra una protezione e l’altra bisogna scalare e capire che diversamente è un’altra attività e se queste cose vengono viste e spiegate aiuta poi molto anche a maturare una considerazione diversa sulle vie classiche e aiuta a mantenerle nello stato in cui sono nate. E quindi questa comunicazione è importante nei corsi del CAI e sarebbe utile insistere abbastanza sul rispetto della storia, su quello che è stato e su cosa significa veramente “arrampicata”. E trasmettere questi concetti si può fare in vario modo, scrivendo un articolo, portando i giovani a fare un’esperienza di avventura su una via o anche su un monotiro, cercando di andare ad intercettare le persone nei luoghi dove ora si inizia ad arrampicare

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