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Piccozze, ramponi e ancoraggi da ghiaccio: dagli albori ai nostri giorni

Mercoledì, 03 Agosto 2022 21:34

Piccozze, ramponi e ancoraggi da ghiaccio: dagli albori ai nostri giorni   

Foto archivio CSMT CAI
 2 Agordino Cascata di S. MartinoAgordino Cascata di S. Martino

 

 

Lo stretto rapporto tra evoluzione dei materiali e difficoltà superate è un dato di fatto. 

L’evoluzione dei materiali è stata, ed è ancora oggi, uno degli elementi fondamentali nella spinta al superamento di difficoltà sempre maggiori. Gli aspetti mentali, la tecnica e l’allenamento fanno il resto, ma soprattutto sul terreno ghiacciato l’innalzamento delle difficoltà è sempre stato strettamente legato alle innovazioni dei materiali.
Ce lo dimostra questo articolo preparato da Giuliano Bressan, impegnato da anni nelle attività di studio e sperimentazione sui materiali presso il Centro Studi Materiali e Tecniche del CAI
 
 
 
 
 
 
 
 
Se prendiamo in esame l’evoluzione dell’arrampicata, il “ghiaccio” è senza dubbio il terreno di gioco dove lo sviluppo tecnologico dei materiali è stato determinante per il progresso delle prestazioni e degli exploit. Andiamo però con ordine e ripercorriamo le varie tappe sino ad arrivare ai nostri giorni.
I primi attrezzi
La prima storica salita al Monte Bianco, compiuta nel 1786, ad opera di Jacques Balmat e Michel Gabriel Paccard fu effettuata grazie all’utilizzo degli “alpenstock”, lunghi bastoni dotati di punta metallica, utili non solo nelle fasi di salita e discesa  ma anche per sondare il terreno; in uso fin dal Medioevo, questi bastoni ferrati si possono considerare a tutti gli effetti gli antenati della piccozza.
Agli inizi del XIX secolo, oltre agli alpenstock, le guide che accompagnavano nelle ascensioni i primi alpinisti impiegavano anche delle comuni accette, atte a scavare dei gradini dove poter appoggiare gli arti inferiori e poter così superare con relativa sicurezza i ripidi pendii di neve dura o ghiaccio. Ben presto però l’ascia venne modificata e perfezionata: il manico fu allungato e dotato di una punta metallica mentre la lama si sdoppiò in una becca, adatta ad essere piantata nei pendii di ghiaccio per rendere più sicura la progressione e in una paletta, utilizzata per scavare i gradini.
Verso il 1840 la paletta diventa orizzontale dando origine in pratica alla piccozza, strumento che accompagnerà guide, scienziati, esploratori e  alpinisti nella salita delle grandi pareti ghiacciate.
In quegli anni, prima della comparsa dei ramponi, le salite su ghiaccio erano lunghe e difficili e si progrediva molto lentamente, utilizzando degli scarponi chiodati che permettevano una discreta tenuta sui gradini scavati nel ghiaccio. Era l’unico sistema possibile per poter salire sulle pendenze più accentuate, modo che richiedeva però un immane lavoro di gradinamento da parte delle guide.
fig. 1 prime piccozze e ramponifig. 1 prime piccozze e ramponiA rivoluzionare il procedimento di scalata  e di conseguenza la velocità di progressione, sia in salita che in discesa, fu l’introduzione dei ramponi, naturale evoluzione degli scarponi chiodati; probabilmente questi attrezzi sono stati i primi mezzi artificiali usati per affrontare le difficoltà del terreno montano e parallelamente gli ultimi ad essere comunemente accettati ed impiegati.  
Le prime testimonianze di “grappette” o “griffe”, cioè di ferri a più punte fissati sotto le calzature per non scivolare, si trovano raffigurate a Roma, sull'Arco di Costantino (inizio del IV secolo d.C.). Come tali, le grappette sono state usate nei secoli successivi in ambito contadino e soprattutto da boscaioli e cacciatori che si dividevano con i cercatori di cristalli la frequentazione della montagna. Nessuno dei pionieri della scalata sulle Alpi aveva però immaginato un loro impiego per superare i ripidi pendii ghiacciati tipici dell’alta montagna e si continuava così a salire gradinando con grande fatica dove le pendenze si facevano importanti. Solo nella seconda metà del XIX secolo si cominciò ad utilizzare delle grappette con strutture molto elaborate (4, 6 e 8 punte) adatte al ghiaccio, anche se nessuno di questi rudimentali ramponi riuscì a diffondersi veramente (fig. 1).
fig. 2 ramponi a 10 puntefig. 2 ramponi a 10 punte
 
Bisognerà attendere il 1909, quando l'ingegnere ferroviario Oscar Eckenstein (1859-1921) entrò nella fucina di Henry Grivel, fabbro di Courmayeur, ai piedi del Monte Bianco sulle cui nevi, cento e più anni prima, era nato l’alpinismo.
Eckenstein aveva progettato un rampone completo con 10 punte che ricopriva tutta la suola dello scarpone. Era ben chiaro nella sua mente il risultato aspettato e  presentò al fabbro dei disegni meticolosi e dettagliati; questi, nonostante un iniziale scetticismo realizzò i ramponi chiesti dall’ingegnere inglese che teneva comunque l’indiscussa prerogativa di poter pagare il lavoro.Dalla loro collaborazione nacque un modello così riuscito da restare valido ancora oggi (fig. 2).
Una vera e propria rivoluzione e, anche se l’impiego di questi attrezzi fu ritenuto dai puristi poco sportivo nei confronti della montagna, la loro affermazione, legata alle eccezionali prestazioni offerte, fu immediata. 
L’utilizzo del rampone a 10 punte consentiva di progredire velocemente su ghiaccio senza dover intagliare degli scalini. Quando il terreno si faceva erto, si procedeva con la tencnica raffinatissima  delle “punte  a piatto”; piegando tantissimo le caviglie, tutte le punte del rampone si aggrappavano al ghiaccio assicurando una buona tenuta. Raggiunta la pendenza limite, si adottava la tecnica della  "piolet ancre", utilizzando cioè la piccozza come un'ancora alla quale attaccarsi con entrambe le mani.
OLYMPUS DIGITAL CAMERA         fig 3 - piccozza in fase evolutiva
Il 30 giugno 1912 fu perfino organizzato un "Concours de Cramponneurs" che si svolse sulla seraccata del ghiacciaio della Brenva tra le guide e i portatori di Courmayeur. Da notare che Eckenstein, ottimo alpinista, spirito contestatore e solitario, aveva introdotto anche un punteggio particolare per valutare lo stile dei concorrenti nelle varie prove e che il concorso fu, molto probabilmente, la prima competizione di scalata, seppur di ghiaccio, della storia.
Con l’uso generalizzato dei ramponi la piccozza prende una forma più “moderna”: il manico comincia ad accorciarsi (dai due terzi dell’altezza a circa la metà della statura della persona) e le becche, originariamente quasi diritte e senza dentature, vengono modificate, solo nella zona della punta, con due o tre intagli per migliorare le doti di ancoraggio (fig. 3).    
Le grandi innovazioni
Qualcosa, tuttavia, si poteva ancora migliorare a favore della velocità di progressione. Si deve a Laurent Grivel, il primo figlio di Henry e guida alpina, l'idea di aggiungere ai ramponi due punte anteriori, permettendo così di affrontare direttamente, cioè con la faccia rivolta al pendio, le più ripide pareti ghiacciate (fig. 4).
fig. 4 rampone a 12 puntefig. 4 rampone a 12 punte
Con questa nuova evoluzione, datata 1929, i ramponi cambiano volto; le 12 punte rendono dinamici questi attrezzi, modificando l’approccio e la filosofia delle salite su ghiaccio e su terreno misto. 
Migliorato il prodotto, sorse ben presto la necessità di renderli più leggeri, per favorire  la rapidità nelle ascensioni in quota. Nel 1936, Amato Grivel, fratello minore di Laurent, in collaborazione con l'acciaieria Cogne, impiegando una lega al Nichel, Cromo e Molibdeno, forgiò dei ramponi davvero resistenti ma più sottili e quindi più leggeri. Attrezzi del peso di soli 360 grammi al paio, fino ad allora impensabili, che nei successivi decenni divennero protagonisti delle prime salite sulle tre cime più alte del mondo, l'Everest, il K2 e il Kangchenjunga.
Questa innovazione risultò determinante per la prima salita della parete nord dell'Eiger, effettuata dal 21 al 24 luglio 1938, expolit che mise fine anche alla decennale diatriba  tra la tecnica “frontale” e  quella delle "punte a piatto". Le cordate impegnate nella salita utilizzavano attrezzature diverse: Heinrich Harrer calzava scarponi chiodati mentre il compagno Fritz Kasparek si serviva di ramponi a 10 punte;  Andreas Heckmair e Ludwig Vòrg usufruivano invece dei ramponi a 12 punte. La differenza nella velocità tra le due cordate fu subito evidente, con la tecnica frontale che permise quasi di raddoppiare il ritmo di progressione, confermandone la maggior efficienza. Heckmair usò anche una piccozza più corta con la becca molto inclinata, di costruzione artigianale.
Gli ancoraggi: chiodi e viti da ghiaccio
fig. 5 chiodo da ghiacciofig. 5 il primo chiodo da ghiaccioSe verso il 1920 era stata introdotta in alpinismo l’assicurazione a spalla in abbinamento ai chiodi da roccia già utilizzati alla fine dell’Ottocento, sul ghiaccio, fino ad allora, le uniche assicurazioni erano costituite dal manico della piccozza, da qualche chiodo da roccia nei tratti di misto e da ancoraggi naturali quali spuntoni e massi affioranti. I rischi a cui andavano incontro i ghiacciatori erano pertanto molto elevati e certe imprese compiute allora hanno ancor oggi dell’incredibile.
Si deve all’alpinista tedesco Wilhelm "Willo" Welzenbach (1899-1934), uno tra i più forti alpinisti del periodo fra le due guerre mondiali, l’introduzione del primo chiodo da ghiaccio: una lama piatta di ferro con delle tacche incise (fig. 5). Questo nuovo tipo di chiodo, derivato da quelli da roccia, gli permise ascensioni sino ad allora inconcepibili, fornendogli efficienti possibilità di assicurazione su tratti altrimenti impossibili da attrezzare. L'esordio dei chiodi da ghiaccio avvenne nel 1924 per la scalata della parete nord del Grosses Wiesbachhorn (3564), in Austria, nel Gruppo degli Alti Tauri. 
Welzenbach assieme a Fritz Riegele, che forgiò materialmente i nuovi chiodi, salì l'impegnativa parete con elegante progressione intagliando un numero elevatissimo di gradini su cui poggiare la punta dei ramponi, purtroppo all’epoca ancora a 8 punte. Oltre ai primi chiodi da ghiaccio, Welzenbach è l’ideatore della moderna classificazione delle difficoltà alpinistiche, risultato della sua scrupolosità e della grande preparazione atletica, tecnica e teorica. Ideata su sei gradi, per l'epoca la massima difficoltà raggiungibile, è oggi conosciuta come Scala UIAA. 
I modelli a lama presentavano però un problema: più ghiaccio veniva rimosso durante l’infissione più la tenuta generale del chiodo si indeboliva. Bisognava quindi ideare ancoraggi  che fossero allo stesso  tempo meno invasivi e maggiormente sicuri.
fig. 6 viti da ghiacciofig. 6 le prime viti da ghiaccioLa soluzione fu trovata da Luigi Bombardieri (1900-1957) che introdusse il concetto del chiodo semi tubolare con feritoie, leggerissimo. Brevettato nel 1935, lo chiamò “arpione Roseg” in omaggio all’elegante vetta glaciale che si eleva accanto al Bernina.      
Nel decennio 1950-’60 fanno la loro prima apparizione anche le viti da ghiaccio; posizionate per avvitamento questi attrezzi soppianteranno in seguito l’impiego dei classici chiodi, ancoraggi che ovviamente richiedevano l’uso di un martello per l’infissione.
Le primi viti, i “cavatappi” per intendersi, come ad esempio lo Stubai Marwa (1957) in lega d’acciaio avevano una forma affusolata e sottile. Altri, come quelli prodotti dalla Salewa (1959), avevano una costruzione a spirale che consentiva una maggiore tenuta (fig. 6). 
 
fig. 7 chiodi da ghiacciofig. 7 chiodi da ghiaccio a percussione
Una sostanziale evoluzione si verifica in seguito anche nei chiodi da ghiaccio, che iniziano a essere via via più solidi ed efficaci (fig. 7). Un chiodo molto all'avanguardia fu ideato nel 1957 in Austria da Felix Ralling: probabilmente il primo chiodo da ghiaccio a percussione con costruzione tubolare della storia.   
Degna di nota è anche l’introduzione, verso la metà degli anni ’50, da parte dell’alpinista austriaco Kurt Diemberger, del “pugnale da ghiaccio”. L’attrezzo piantato all’altezza delle spalle permetteva di togliere e ripiantare la piccozza più in alto senza perdere l’equilibrio; in pratica si poteva parlare per la prima volta di un secondo attrezzo per la progressione.
La rivoluzione della Piolet Traction, il ghiaccio verticale e il Dry Tooling
Gli anni successivi alla fine delle attività belliche portano ad un grande rinnovamento nei materiali e nelle attrezzature impiegate nelle salite, sia su roccia che su ghiaccio e terreno misto.
Le piccozze diventano sempre più corte, più leggere e performanti, ma mantengono una fisionomia tradizionale fino a metà degli anni '60. Nonostante queste innovazioni rimaneva però aperto il problema del superamento di tratti verticali senza dover fare ricorso alla tecnica artificiale. Ciò che ancora non si era intuito erano le enormi potenzialità che potevano derivare da una piccozza usata in trazione sul manico, abbinata alla tecnica frontale. 
Nel 1971, Walter Cecchinel, francese ma di genitori veneti, riprendendo le intuizioni di Lucien Devies e di André Contamine ideò un attrezzo che, partendo dal pugnale da ghiaccio, poteva offrire altre possibilità d’impiego, come per esempio quella di un martello. Ne uscì un arnese, a detta di Cecchinel, un po’ bizzarro: un pugnale da ghiaccio con manico che venne impiegato per aprire un’impegnativa via al Grand Pilier d’Angle sul Monte Bianco. Ben presto Cecchinel, proveniente dalla grande scuola dei ghiacciatori francesi, intuì che la mano poteva impugnare il manico del prototipo per ancorarlo, a braccio teso, al di sopra della testa, servendosene come presa di sostegno. Al contrario della tecnica piolet ancre, i ramponi venivano utilizzati “punte avanti” accoppiando al nuovo attrezzo una piccozza classica d’appoggio. Poco tempo dopo Cecchinel mise a punto due attrezzi ben specifici, piccozza e martello-piccozza, con becche inclinate e provviste di dentini ben marcati e incisi, prodotti da Simond, con i quali riuscì a ripetere il Couloir Lagarde-Segogne all’Aiguille du Plan (Monte Bianco) procedendo su inclinazioni sostenutissime. 
Con la successiva prima salita, nonchè prima invernale, nel 1973 del Couloir nord-est dei Drus, sempre nel Gruppo del Monte Bianco, a opera dello stesso Cecchinel con Claude Jager, la divulgazione della tecnica e successivamente la commercializzazione del relativo materiale, allargarono il campo d’interesse e vi fu grande attenzione per quella che prenderà il nome più che significativo di “piolet-traction” (trazione sugli attrezzi).
fig. 8 piccozza Terrordactylfig. 8 la mitica piccozza TerrordactylNegli anni ‘60 bisogna però riscontrare che gli alpinisti scozzesi erano già tecnicamente molto avanti, visto il terreno particolare sul quale arrampicavano: salite su pareti ghiacciate superficialmente  e fessure intasate di ghiaccio. Più che una piccozza vera e propria occorreva una specie di gancio da incastrare nelle fessure o da agganciare sugli appigli di roccia: da qui, la nascita della prima piccozza  simile alle attuali. All’alpinista scozzese Hamish MacInnes (1930-2020) si deve il progetto e l’utilizzo della prima piccozza e del martello-piccozza interamente in metallo: le “Terrordactyls” (fig. 8). Avevano un manico cortissimo (solo 40 cm) e una becca super solida di forma diritta, anche questa molto corta con 4 denti sulla punta molto inclinata (oltre 45 gradi) che funzionava molto bene in fase di aggancio; attrezzo però molto difficile da piantare dato l’angolo di infissione che procurava dolorose conseguenze per le dita ogni volta che andavano a  sbattere contro la parete. Con questi attrezzi MacInnes e soci salgono però nuove e difficilissime linee sul Ben Nevis e nel Glencoe, in Scozia.
Negli Stati Uniti anche l’alpinista e imprenditore Yvon Chouinard sviluppa nel 1969, nella sua allora piccola fabbrica in California, la prima coppia di attrezzi da ghiaccio: una piccozza con becca molto inclinata e un martello-piccozza, entrambi con lame intercambiabili e manico alleggerito. Strumenti che hanno portato ad una sostanziale evoluzione nella tecnica di progressione su ghiaccio, anche perché gli attrezzi scozzesi erano poco conosciuti e difficilmente reperibili fuori dai confini nazionali.
Nel 1975 nasce l’idea di invertire la curvatura della punta, negli Stati Uniti  con Forrest, in Francia con Simond che mette in commercio nel 1978 la piccozza “Chacal” con la lama a curvatura inversa detta “a banana” che in pratica si usa ancora oggi. La forma a banana, con dentatura completa fino al manico, aiutava moltissimo la penetrazione nel ghiaccio e allo stesso tempo consentiva un’ottima trazione. Sempre negli anni ’70 la Grivel e la Charlet Moser commercializzano le “dragonne” per collegare le piccozze ai polsi dell'arrampicatore; in pratica un utile accorgimento di sicurezza che limitava però moltissimo la libertà dei movimenti. Attualmente le dragonne non si usano più, preferendo collegare, per mezzo di sottili longe, le  piccozze all’imbracatura onde evitarne la perdita durante la scalata.
Dal punto di vista della normativa sui materiali, solamente nel 1978, vengono approvate da parte  della Commissione di Sicurezza dell’UIAA le norme riguardanti le piccozze che portarono all'adozione della lega leggera per la fabbricazione dei manici, al posto del tradizionale legno, già iniziata sia in Europa che negli USA.
 
 
 
 
fig. 9 piccozzze modulari con dragonnefig. 9 piccozzze modulari con dragonneAll’inizio degli anni ‘80 si affermano gli attrezzi modulari cioè con lame e martelli-palette intercambiali prodotti da Charlet Moser (fig.9), Grivel, Simond, Stubai e Lowe. Anche il concetto del tubolare o del semi-tubolare, utilizzato per i chiodi da ghiaccio, viene applicato sulle becche delle piccozze per la piolet-traction, idea che fa tuttora discutere entusiasti e detrattori. 
Altro balzo in avanti è l’introduzione del manico ricurvo sulle piccozze: la piccola fabbrica artigianale americana Ice, realizza nel 1982 “The Eboc”, una Terrordactyls con il manico piegato. Nel 1986 arriva sul mercato la “Rambo” della Grivel; il manico con curvatura accentuata e la lama molto sottile e performante consentono agganci efficaci anche su ghiaccio sottile e una maneggevolezza mai avuta prima. Sempre Grivel nel 1995 fa un altro balzo in avanti con la rivoluzionaria “Machine”, che presenta una marcata piega nel manico con un’inclinazione ottimale, sia per l’infissione della lama sia per l’impugnatura inclinata che fa risparmiare fatica.
Sono gli anni in cui l'arrampicata sulle cascate di ghiaccio diventa un'attività sempre più diffusa, con numerosissime prime salite e gradi di difficoltà sempre maggiori.  
Torniamo indietro nel tempo per raccontare  la concomitante evoluzione dei ramponi. Il loro sviluppo, ripreso dopo la seconda guerra mondiale, non puntò più all'alleggerimento degli attrezzi (attualmente la gran parte dei ramponi pesa di più rispetto al primo modello di super leggeri), quanto al suo miglioramento tecnico. Le prime innovazioni furono mirate alla realizzazione di ramponi regolabili che si potessero calzare su misure e modelli diversi  di scarponi e così nel 1962 la Salewa propose il primo rampone a regolazione totale.
Dal lato tecnico si cominciò però a sentire l'esigenza di attrezzi più adatti al ghiaccio duro e ripido che rappresentava la naturale evoluzione della ricerca alpinistica. Forse il primo a ideare e ad utilizzare dei ramponi rigidi che costituissero una piattaforma di appoggio più stabile e fossero più efficaci nel penetrare il ghiaccio duro fu ancora Yvon Chouinard; ne risultarono attrezzi molto efficaci ma assai fragili e pericolosi. 
fig. 10 ramponi Foot Fangsfig. 10 ramponi Foot Fangs
La vera trasformazione avviene solo con l'introduzione degli scarponi di plastica. Nel 1972 l’alpinista Jeff Lowe (1950-2018), fissò delle lame verticali dentate ai suoi scarponi da sci; erano nati i “Foot Fangs”, vera rivoluzione nel concetto di rampone: rigido, a struttura verticale, con aggancio automatico (fig. 10). Lowe ha effettuato oltre  mille prime ascensioni ed è anche stato cofondatore dell'azienda Lowe Alpine insieme ai suoi fratelli Greg e Mike.
Pochi anni prima la Stubai, per migliorare l'appoggio e l'equilibrio nella tecnica, orienta in avanti la seconda coppia di punte; di rilievo anche l'adozione della monopunta da parte della Charlet Moser e della Grivel (1986). I ramponi più diffusi fra i ghiacciatori di quel periodo sono i “Makalu” della Simond, progettati ancora da Walter Cecchinel.
fig. 11 ramponi modernifig. 11 ramponi moderniUn’ulteriore ed importante innovazione è infine rappresentata  dalla soletta anti-neve: un sistema utilissimo atto a impedire la formazione di uno zoccolo sotto al rampone, in caso di neve molle o crostosa, che può rendere inefficace la presa delle punte e creare pericolosi problemi di stabilità e sicurezza, aumentando conseguentemente il rischio di caduta (fig. 11). Nel 2003 la Grivel ha risolto definitivamente questo problema con l'anti-zoccolo proattivo che, grazie alla sua azione elastica, scarica la neve sfruttando il naturale movimento della camminata.
Ai giorni nostri i ramponi non sono più un oggetto polivalente adatto a tutte le situazioni, ma esistono modelli per i diversi settori di utilizzo; valga per tutti l'esempio di attrezzi specifici per il ghiaccio classico,  lo sci alpinismo, le cascate di ghiaccio e il dry tooling.
Anche chiodi e viti in questo intervallo di tempo vengono rivoluzionati dal punto di vista costruttivo e nelle caratteristiche tecniche. Nel decennio 1975-1985, compaiono alcuni “rivoluzionari” chiodi da ghiaccio tubolari a percussione e a vite con caratteristiche fra loro simili; il più valido fra questi era senza dubbio lo “Snarg” inventato dall’americano Jeff Lowe e commercializzato dalla Camp (fig. 12). 
Successivamente fanno la loro comparsa le prime viti tubolari russe al titanio, difficili da reperire e di costo spesso elevato e le Chouinard con le frese saldate. L’utilizzo di quesi ancoraggi era  però difficoltoso e assai rischioso perchè bisognava avvitarli con la becca della piccozza, rimanendo appesi all’altro attrezzo. Solo migliorando i sistemi di lavorazione e le finiture superficiali entrano nel mercato, alla fine degli anni ’80, viti da ghiaccio con fresa che si possono avvitare con una sola mano, agendo su una manovella fissata sulla testa dell’attrezzo (fig. 13).
fig. 12 chiodi Snargfig. 12 chiodi a percussione Snarg
 
fig. 13 viti tubolarifig. 13 viti tubolari attuali
 
fig. 14 piccozze fig. 14 piccozze attualiLa rugosità superficiale bassissima, unita alla cromatura interna ed esterna, hanno reso possibile la loro facile penetrazione nel ghiaccio, anche tra colonne, stalattiti e cavolfiori, consentendo così all’alpinista di proteggersi senza sprecare troppa energia.
L’ultima vera rivoluzione arriva negli anni ‘90 con il diffondersi del “dry tooling”, ovvero dell’arrampicata mista estrema, in cui le piccozze e i ramponi vengono utilizzati per arrampicare sulla roccia e raggiungere candele di ghiaccio sospese nel vuoto. 
L’innovazione negli attrezzi, anche in questo caso, ha preceduto e reso possibile un’evoluzione dell'arrampicata che ha spinto ancora più in alto il livello di difficoltà. 
Le piccozze di ultima generazione, con utilizzo del carbonio e di materiali sempre più leggeri, presentano oggi curvature più accentuate e impugnature molto piegate ed ergonomiche (fig. 14). Le viti da ghiaccio si avvitano ancora più velocemente e senza difficoltà con una mano sola, mentre i ramponi, in molti casi monopunta, consentono una migliore penetrazione nel ghiaccio e di ottenere la massima resa sulla roccia, perfino sugli appigli e sulle fessure più piccole. 
Dal 1786 ad oggi sono state salite le pareti, le goulotte, i couloir, gli hypercouloir, le cascate, le esili linee di ghiaccio effimero… cosa riserverà il domani?

 Immagine di copertina: Scozia, Ben Nevis Parete Nord Point Five Gully 

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